Jorge Luis Borges, La Stampa 9/5/2010, pagina 36, 9 maggio 2010
BORGES: E SE AL MONDO ESISTESSI SOLO IO?
Un uomo di lettere, solo un uomo di lettere. una finzione di umiltà quella di Jorge Luis Borges nell’intervista rilasciata nel 1976 a Denis Dutton, Michael Palencia-Roth e Lawrence Berkove, mentre era visiting professor alla Michigan State University, negli Usa. Infatti, incalzato dai tre professori americani, lo scrittore sostiene che un racconto può essere più efficace di qualunque teoria nel presentare un’idea filosofica. Tra i suoi filosofi preferiti ci sono George Berkeley e Arthur Schopenhauer. Insomma: l’idealismo, sia che ci sia dietro il principio divino o l’inganno dell’universo.
L’intervista, di cui in questa pagina proponiamo uno stralcio, fu pubblicata l’anno seguente dalla rivista universitaria Philosophy and Literature che aveva una circolazione limitata all’ambito accademico. A riproporla ora online in una versione rinnovata è uno degli autori, Denis Dutton (sul sito denisdutton.com, dove si può ascoltare la voce di Borges nella registrazione digitalizzata). «Questa versione», spiega, «è più accurata in quanto siamo in grado di colmare le lacune nella vecchia registrazione. L’inglese di Borges era fluido, ma lo scrittore argentino aveva una tendenza a ingoiare frasi e parole. Grazie alle nuove tecnologie ho potuto realizzare una trascrizione in cui il suo pensiero è più comprensibile».
Denis Dutton è l’autore di The Art Instinct (Oxford University Press) dove applica le teorie di Darwin all’evoluzione del senso estetico nelle civiltà umane. anche l’inventore dei «Bad writing contest», gare in cui il premio alla peggior scrittura è andato anche a filosofi celebri come Jean Baudrillard. Mai a Borges, comunque. Dopo l’intervista, Borges e Dutton s’incontrano ancora al campus di Dearborn, dove l’autore di Finzioni rievoca un racconto della nonna che assistette a una conferenza di Charles Dickens e quanto da bambino fosse rimasto impressionato dall’entusiasmo del pubblico. L’imprinting di Borges alla scrittura forse arriva da lì.
Fabio Sindici
«Le enciclopedie sono state la lettura principale della mia vita. Sono sempre stato interessato alle enciclopedie. A Buenos Aires andavo alla Biblioteca Nacional e, siccome ero timido, non osavo chiedere un libro o avvicinare un bibliotecario, e così cercavo sugli scaffali l’Enciclopedia Britannica. Ovviamente poi mi portavo il libro a casa. Sceglievo un volume a caso e lo leggevo. Una notte fui ben ricompensato perché lessi tutto sui Drusi, su Dryde / e sui Druidi, tutti nello stesso volume, ovviamente, il ”DR”.
«Poi mi venne l’idea di un’enciclopedia di un mondo vero e poi di una, ovviamente molto rigorosa, di un mondo immaginario, dove tutto sarebbe stato collegato. Dove, per esempio, ci sarebbe stato un linguaggio, poi la letteratura, poi la storia, e così via. Poi ho pensato di scrivere una storia dell’enciclopedia fantastica. Naturalmente per scriverla ci sarebbero volute molte persone diverse che discutessero molte cose - matematici, filosofi, uomini di lettere, architetti, ingegneri, e anche narratori o storici. Poi, siccome mi serviva un mondo assolutamente diverso dal nostro, - non bastava inventare nomi stravaganti - mi dissi, perché non un mondo basato sulle idee di Berkeley?».
Un mondo in cui è Berkeley a rappresentare il senso comune e non Cartesio?
«Sì, proprio così. Quel giorno scrissi Tlön Uqbar, Orbis Tertius. Ovviamente l’intera storia si basava sulla teoria dell’idealismo, l’idea che non ci sono cose ma solo eventi, che non ci sono nomi ma solo verbi, che non ci sono cose ma solo percezioni...».
Tlön è un buon esempio di racconto dove, comunque finisca la storia, il lettore è incoraggiato a continuare ad applicare le sue idee.
«Bene, lo spero. Mi chiedo però se siano le mie idee. Perché, davvero, io non sono un pensatore. Ho usato le idee dei filosofi per i miei scopi letterari, ma non credo proprio di essere un pensatore. Penso che il mio pensiero sia stato fatto per me da Berkeley, Hume, Schopenhauer, forse Mauthner».
Lei dice di non essere un pensatore...
«Ciò che intendo dire è che non ho un sistema filosofico mio. E non ho mai cercato di crearmelo. Sono solo un uomo di lettere. Nello stesso modo - beh, forse non dovrei scegliere questo esempio - nello stesso modo in cui Dante usava la teologia per gli scopi della sua poesia, o Milton la teologia per la sua poesia, perché io non dovrei usare la filosofia, soprattutto l’idealismo - la filosofia che mi attira - per scrivere un racconto, una storia? Penso che sia lecito, no?».
Lei condivide di sicuro una cosa con i filosofi: la fascinazione per la perplessità, il paradosso.
«Sì, ovviamente - presumo che la filosofia sgorghi dalla nostra perplessità. Se avete letto quelli che potrei essere autorizzato a chiamare ”i miei lavori”, avrete visto che lì dentro c’è in continuazione un evidente simbolo della perplessità: il labirinto. Labirinto e stupore vanno insieme, no? Un simbolo di stupore potrebbe essere il labirinto».
Ma i filosofi non sembrano contenti di essere semplicemente messi di fronte alla perplessità, vogliono risposte.
«Hanno ragione».
Hanno ragione?
«Beh, forse nessun sistema è completamente raggiungibile, ma la ricerca di un sistema è molto interessante».
Lei definirebbe il suo lavoro la ricerca di un sistema?
«No, non sarei così ambizioso. Lo definirei non fantascienza ma racconto filosofico, o racconto onirico. Sono anche molto interessato al solipsismo, che è poi una forma estrema di idealismo. strano come tutti quelli che scrivono di solipsismo lo facciano per confutarlo. Non ho visto un solo libro a favore del solipsismo. So quello che vorreste dirmi: dato che c’è un solo sognatore, perché scrivo un libro? Ma se c’è un solo sognatore, perché non potrei sognare di scrivere un libro?».
Che cosa pensa del solipsismo?
«Che in senso logico è inevitabile: non ammette confutazione e non produce convinzione».
In conclusione, lei ritiene che una storia possa rappresentare una posizione filosofica più efficacemente delle argomentazioni di un filosofo?
«Non ci ho mai pensato, ma presumo di sì. Penso a qualcosa in termini di Gesù Cristo. Se ben ricordo, non ha mai usato argomentazioni, usava lo stile, usava certe metafore. Usava frasi che facevano colpo. Non diceva: non sono venuto a portare la pace ma la guerra, bensì: non sono venuto a portare la pace ma la spada. Cristo pensava per parabole. Blake diceva che un uomo, se è un cristiano, non dovrebbe essere solo intelligente, dovrebbe essere anche un artista, perché Cristo ha insegnato l’arte attraverso il suo modo di predicare, perché ognuna delle frasi di Cristo, se non ogni singola parola, ha valore letterario e la si può prendere come metafora o come parabola».
Ma allora, che cosa distingue l’attitudine filosofica da quello lettaria, se condividono così tante cose?
«Il filosofo ha un modo molto rigoroso di pensare, mentre lo scrittore è interessato anche alla narrazione, racconta delle storie, usa le metafore».
Lei ritiene che un racconto, soprattutto un racconto breve, possa essere rigoroso in senso filosofico?
«Direi di sì. Ovviamente in quel caso sarebbe una parabola. Ricordo una frase letta nella biografia di Oscar Wilde di Hesketh Pearson, a proposito della predestinazione e del libero arbitrio. Pearson chiese a Wilde dove mettesse il libero arbitrio, e quello rispose con una storia di aghi e chiodi che vivevano nei pressi di un magnete e dicevano: dovremmo andarlo a trovare, senza rendersi conto che si stavano slanciando sul magnete, il quale sorrideva perché sapeva che stavano andando a trovarlo. In questo modo Wilde dava la sua opinione: noi pensiamo di essere attori liberi, ma ovviamente non lo siamo... Vorrei però chiarire che, se si devono trovare idee in ciò che scrivo, quelle idee arrivano dopo la scrittura. Intendo dire che io comincio a scrivere, comincio con la storia, con il sogno. E poi, forse, entra qualche idea. Non comincio con la morale, per poi scriverci su un racconto che la dimostri».