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 2010  maggio 09 Domenica calendario

HARRODS VENDUTO AGLI ARABI

Mohammed Al Fayed, l’egiziano che voleva essere inglese, piccolo, calvo, sempre vestito con giacche a scacchi e camicie improbabili, considerato dalla Gran Bretagna un enigmatico imbroglione con un leggendario fiuto per gli affari e dalla Corona uno sgradevole incidente della storia, dunque si è arreso. E per chiudere il viaggio che da Alessandria avrebbe dovuto portarlo nel cuore più nobile di Londra, avvolto in una bandiera e consacrato da un passaporto, ha ceduto il simbolo più potente della sua brama di emancipazione: il Grande Magazzino Harrods, tempio pagano di South Kensington, visitato ogni anno da 13 milioni di clienti vogliosi di ripulirsi il portafoglio. Diamanti, cibo, vestiti, orologi, vini, spalmati su 93 mila metri quadrati e 300 reparti divisi in sette piani. «Qui troverete tutto, dall’ago all’elefante».
Per consegnare la coda avvelenata del sogno di una vita e abdicare psicologicamente dall’idea di diventare suddito di Sua Maestà la Detestata, Al Fayed ha fissato un prezzo da fumetti: 1 miliardo e mezzo di sterline - quasi il triplo di quello che aveva versato lui nel 1985 - che un fondo sovrano del Qatar ha pagato senza battere ciglio. Dov’è che dobbiamo firmare? Il piccolo egiziano ha stretto appena gli occhi, respirato a fondo e detto: qui. Fine di tutto.
Ken Costa, presidente della banca Lazard International, mediatore dell’affare, ha spiegato a una Londra stupefatta che il signor Al Fayed così intende «stare più tempo con la propria famiglia, con i figli e con i nipoti». Loro sì, inglesi. Davvero è per la famiglia, gli hanno chiesto? Costa si è allontanato scrollando le spalle.
Inseguito dal fantasma del figlio Dodi, morto a Parigi assieme a Lady Diana, Mohammed Al Fayed ha cercato per oltre trent’anni di ottenere la cittadinanza britannica. Ma non sono bastate mogli, potere, denaro e sotterfugi per trovare il Santo Graal, la pelle bianca per Michael Jackson, il passaporto per lui.
Così, quella che fino alla scomparsa del figlio era semplicemente una lotta si è trasformata in uno scontro frontale con chi negava il senso più profondo della sua ricerca. «Li hanno assassinati», ha gridato al mondo. E perché l’accusa rimanesse indelebile, ha fatto collocare una statua del figlio e della Principessa al primo piano del Grande Magazzino fondato da Charles Henry Harrod, droghiere dell’Essex, e costruito nel 1849 sulla schiena di Hyde Park. Sul piedistallo del monumento funebre la scritta «vittime innocenti». Poco più in là una targa dice: «In memoria di Diana, principessa di Galles, e di Dodi Al Fayed, uccisi il 31 agosto 1997». Come un colpo di pistola in mezzo a un concerto, una faccenda brutale ma impossibile da ignorare, nel cuore della capitale. Dal 2000 Buckingham Palace ha cancellato Harrods e il suo ricchissimo proprietario dalla lista dei fornitori.
Figlio di un insegnante di scuola elementare, 77 anni, o forse 81 (anche la sua data di nascita è avvolta dal mistero), il piccolo egiziano ha cominciato a guadagnarsi la vita vendendo per strada Coca-Cola e macchine da cucire. Poi l’incontro con Adnan Khashoggi che ha rivoltato la traiettoria della sua esistenza. Gli affari, l’acquisto dell’Hotel Ritz a Parigi e poi Londra. Era il 1970.
Per farsi adottare dal Paese ha donato milioni di sterline a ospedali e bambini e comprato una squadra di calcio, il Fulham. Quando la nazionale ha avuto bisogno di un allenatore ha alzato la mano e ha detto: ecco, vi do il mio, King Kevin Keegan. «Grazie Mohammed, lo prendiamo, ma tu non sei uno di noi». Il fegato gli è diventato grosso come una mongolfiera. «Perché non mi date un passaporto?, possiedo Harrods, pago le tasse e in questo Paese faccio lavorare migliaia di persone». Un ricchissimo signor nessuno, per giunta fastidioso, bugiardo, implicato in processi per mobbing e per affari condotti in maniera discutibile, eppure vitale, indomabile e a suo modo geniale. Harrods la cima della montagna, il palazzo dell’imperatore, l’enclave personale nel cuore della City.
Foto con Gorbaciov, la Loren e Bono Vox. In un impeto di ottimismo pensa di potersi sentire a proprio agio in questo mondo ostile. Torna a chiedere la cittadinanza, le porte gli si chiudono ancora in faccia. Gli anni passano, la rabbia lascia posto all’amarezza, i sovrani del Qatar lo tentano, dice di no tre volte. Poi crolla. «Io passo, Harrods rimane». Lo cede. A loro, non agli inglesi.