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 2010  maggio 08 Sabato calendario

SE SHAKESPEARE E’ ANONYMOUS (2

articoli) -
«Voglio ringraziare il pubblico. E voglio ringraziare gli attori per la loro superba recitazione». Nei panni di William Shakespeare, l’attore britannico Rafe Spall fa un Bardo un po’ grezzo nei modi e nelle parole. Sembra di avere davanti un istrione che sollecita l’applauso e poi si pavoneggia, uno che nello sguardo sembra quasi un impostore.
Siamo ai primi del 1600, dentro il Rose Theater circolare, in legno. Ci sono trombe, piume, cappelli con le falde, costumi di velluto verde e bordeaux, lustrini. Ma questo non è il Rose di cui Shakespeare sarebbe stato azionista, che poi rispuntò per caso nel 1989 a Londra durante degli scavi. E non è nemmeno una sala di posa di qualche studio britannico. Siamo a Bebelsberg, alle porte di Berlino, in uno studio che l’anno prossimo compirà cent’anni e dove sono stati girati film come Metropolis o Inglorious Basterds. E mentre l’attore e le comparse tornano per una seconda e poi una terza e poi una quarta ripresa, a urlare «Action!» è un regista tedesco noto più per film catastrofici molto rumorosi e pieni di effetti speciali come Independence Day e 2012 che per i classici della letteratura: Roland Emmerich. Dopo anni a Hollywood voleva tempo tornare a girare in patria. Per farlo, ha trovato ispirazione in una sceneggiatura che aveva letto per la prima volta nove anni fa, che nel frattempo ha subito una ventina di revisioni e che ha a che fare con Shakespeare. Anzi, come indica il titolo del film, Anonymous, con una questione che si protrae da secoli: se Shakespeare fosse davvero Shakespeare, se l’autore del Mercante di Venezia e di Enrico V fosse lui o se Shakespeare fosse un semplice prestanome.
«Un dubbio - spiega Emmerich - che, da quando l’ho sentito per la prima volta, non mi lascia pace. Sono felice di essere su questo set, e circondato da una troupe tedesca proprio qui dove si è fatta la storia del cinema tedesco». Ma non è strano per uno come lei un soggetto come questo? «Nella mia carriera non ho fatto solo film catastrofici - risponde un po’ stizzito -. E poi sono quei film che mi permettono adesso di essere qui e di fare ciò che desidero. C’è troppa ipocrisia attorno a Shakespeare, un autore troppo importante per meritare un trattamento del genere».
Che quello che è passato alla storia come William Shakespeare non sia stato l’autore di quei testi è un’ipotesi che ha fatto colare fiumi d’inchiostro. Un giallo che, nella nostra epoca di teorie complottarde alimentate facilmente da Internet, trova una possibile soluzione nel nome di Edward de Vere, diciassettesimo conte di Oxford. E, anche se il suo film non sposa in modo definitivo questa teoria, Emmerich lascia intendere che il suo intuito lo porta in questa direzione: «Sono curioso di sapere come abbia fatto Shakespeare ad ambientare quattordici delle sue opere in Italia quando in Italia non c’è mai stato - aggiunge il regista tedesco -. Propendo per la soluzione-Oxford, però questo sarà soprattutto un film su un’epoca, sui tempi di Elisabetta I, su una società distante da noi come quella di Avatar».
Per il suo primo film europeo dopo tanti anni di fortunato esilio, Emmerich ha scelto uno studio tedesco entrato nella leggenda e un grande cast. Rhys Ifans è il conte di Oxford, David Thewlis il cancelliere William Sessions, Mark Rylance, coautore di una «Dichiarazione di ragionevole dubbio» sulla paternità delle opere attribuite a Shakespeare firmata da 1.600 persone, è il conte di Gloucester. Poi c’è la Regina Elisabetta, che da giovane è impersonata da Joely Richardson e da adulta da Vanessa Redgrave, sua mamma nella vita reale. «Più che un giallo, questo è un film sul potere della parole e sul processo della creazione - sostiene la Redgrave -. E su un periodo in cui non c’erano i giornali, la tivù, Internet e il teatro era il foro dove un individuo poteva esprimere le sue opinioni». Interviene la Richardson, che non nasconde il suo orgoglio per aver indossato i panni di Elisabetta e averlo fatto accanto a mamma. E aggiunge: «La questione della vera paternità delle opere di Shakespeare per me è nuova ed estremamente affascinante. Ma non ne cambia la grandezza».
LORENZO SORIA

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LASCIATE IN PACE IL BARDO -
L’idea che i drammi di William Shakespeare siano stati scritti da qualcun altro nacque in epoca romantica, quando si mise in dubbio anche l’esistenza di Omero. Ora, Omero era una figura leggendaria, diversamente da Shakespeare, nato da artigiani in una cittadina di provincia dove si ritirò dopo avere fatto i soldi, e ammirato dai contemporanei, che lo descrissero come persona tranquilla e gentile.
Duecento anni dopo, però, questi tratti di uomo normale venuto dalla campagna sembrarono inadeguati a colui che si era librato ad altezze sublimi. Nel 1856 un’intraprendente studiosa americana lanciò l’idea che costui fosse stato il semplice prestanome di un grande e propose Francis Bacon, come dire il più dotto degli elisabettiani. I baconiani diventarono una setta molto accanita, ma non riuscirono a trovare conferme. Nel 1920 un altro estroso autodidatta, stavolta inglese, tale J.T. Looney, ripartì da zero. Decise che chiunque avesse scritto le opere doveva essere un aristocratico, un esperto di falconeria, un innamorato dell’Italia, un reduce da complesse esperienze con le donne. Cercando qualcuno con siffatti connotati, approdò su Edward de Vere, conte di Oxford (nato nel 1550), autore di un componimento nel metro dello shakespeariano Venere e Adone.
Looney non si soffermò su un aneddoto raccontato dal pettegolo secentesco John Aubrey, secondo il quale il conte girò al largo dalla Regina Elisabetta per sette anni in seguito all’umiliazione per il sonoro peto che gli era scappato facendole una riverenza (quando trovò il coraggio di ripresentarsi, la sovrana lo incoraggiò dicendogli: «Milord, avevo dimenticato il peto»). Gli bastò apprendere che Oxford aveva protetto dei letterati e una compagnia di attori, che si era sposato due volte e che aveva avuto sorti altalenanti a Corte; gli ultimi anni li aveva passati in campagna. Oggi sono emersi altri tratti, che Looney avrebbe apprezzato meno: il conte fu un eccentrico dalle mani bucate, un debitore insolvente, un violento che uccise un servo e si fece assolvere sostenendo che costui si era suicidato gettandosi sulla sua spada; negli anni del ritiro non fece che scrivere lettere brigando per ottenere commissioni e prebende.
Inoltre morì nel 1604, ossia prima che Macbeth, Lear, Antonio e Cleopatra, Timone d’Atene, Pericle, Racconto d’inverno, Cimbelino, La tempesta e Enrico VIII vedessero la luce. Looney lo sapeva, ma dichiarò che La tempesta è spuria e che altri lavori furono rappresentati postumi. Se il regista catastrofista ha qualche argomentazione più convincente, sarà interessante ascoltarla.
Masolino d’Amico