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 2010  maggio 09 Domenica calendario

MARTIN ED IO, SCRITTORI ALLA PARI

Isabel Fonseca è una donna bellissima dall’aria irresistibilmente insicura, temi si dissolva all’improvviso come una silhouette di fumo uscita dalla penna di Martin Amis, suo marito. Guarda dalla finestra la figlia che si allontana con le amiche verso Regent’s Park. sabato pomeriggio e Fernanda ha tredici anni. «Dov’eravamo rimaste»? Dice porgendo la tazza di tè e un cucchiaino per due. Ai ricordi che «nascono quando comincia la scrittura». Parla della vita zingara alla quale nel 1995 dedicò il primo libro, Seppellitemi in piedi. Parla dei nomadi che non sentono la concatenazione storica degli eventi e non hanno memoria né radici, in moto perpetuo per nessun dove condannati alla nostalgia senza salvezza del lungo drom, il lungo viaggio.
Il suo cominciò nel 1989, i coniugi Ceausescu fucilati in diretta tv il giorno di Natale e lei ebrea di New York davanti allo schermo in un bar di Barcellona a fare progetti con il fratello Bruno. Voleva conoscere da vicino «i nuovi perseguitati», Bruno la incoraggiò, partì. Nei periodi trascorsi nell’Europa dell’Est tra accampamenti di lamiere e cartone, periferie sopravvissute alla fine del mondo e stazioni da dove nessuno partiva mai, la visione cominciò a incrinarsi. «Avevo cercato negli zingari lo specchio delle società che li circondano, quella che Václav Havel definì la cartina di tornasole per qualsiasi società civile. Da americana con un’istintiva resistenza ad ogni relativismo culturale avevo un senso morale molto netto e idee precise sui diritti inalienabili. Scoprii un universo frammentato di comunità isolate, ciascuna con la propria lingua e la propria musica, neanche il flamenco poteva dirsi intrinsecamente zingaro. I rom sono senza storia non per scelta ma perché costretti a rimuoverla da chi ha voluto assimilarli e non integrarli, troppo esausti e oppressi dalla miseria, la memoria è un lusso che richiede spazio per gli archivi, metaforico e letterale.
«La ricerca si trasformò in uno sforzo di semplificazione dal quale emerse la domanda fondamentale: quando un gruppo senza bandiera, inno, lingua, senza patria e soprattutto senza il desiderio di averne una, diventa un popolo? Gli zingari sono un segmento necessario all’immaginazione europea che nel migliore dei casi insegue la sua Carmen e nel peggiore cerca un capro espiatorio, cosa significa essere loro, cosa significa essere chiunque? Vissi per settimane con una famiglia di rom albanesi per i quali era evidente che una trentenne senza figli costretta a girare il mondo e passare il suo tempo con loro andasse solo compatita».
Cosa essere tu?, per Alice persa nel paese delle meraviglie tornare a casa è rispondere al Brucaliffo. Neanche Jean ha risposte, la protagonista quarantenne e cerebrale di Attachment, Legàmi. Nel romanzo di Isabel Fonseca del 2008 la storia ha inizio su un’isola immaginaria e lontana dove Jean e Mark credono di aver trovato il loro «buon posto» finché lei scopre di non conoscere davvero l’uomo che ama e di percepirsi in modo radicalmente diverso da come la vedono gli altri. Per cambiare sguardo Jean parte dal corpo che si trasforma e la spaventa, sopraffatta da «un’orgia di sensazioni» come nella scena del mercato tra donne con le gengive arrossate dal betel e uomini che arrostiscono interiora in mezzo alla strada. «La scrittura’ dice Isabel’ è una forza talmente sconvolgente e misteriosa, come un evento naturale al quale non puoi opporti, l’inconscio lancia messaggi che cogli in ritardo. Norman Mailer la chiamava l’arte degli spettri, c’è sempre qualcosa che viene da un altro luogo. Mi affascina lo spostamento di prospettiva legato a un preciso passaggio di generazione. Dai diciassette ai quarant’anni ti senti sempre uguale e in fondo resti la stessa persona, poi succede qualcosa e capisci che la scena è cambiata. I genitori diventano vulnerabili, i figli s’innamorano, tutto ciò impone un riassetto emozionale e come un’esperienza preventiva del dolore nella quale, ormai adulti, ci si prepara al dopo, al pugno della morte. Di solito in questo momento la donna, rispetto all’uomo disposta a perdersi nella vita dell’altro più facilmente e in un modo che la identifica, realizza che nel matrimonio la felicità non è compito dell’altro».
Isabel conobbe Martin nei primi anni Novanta quando, dopo gli studi di Economia e Filosofia ad Oxford, lavorava al supplemento letterario del «Times»; lui lasciò la prima moglie, si sposarono. Nel 2004 la partenza insieme per l’Uruguay, un altro posto buono per lasciare fuori il mondo, sulle tracce dei Fonseca’ il padre, lo scultore uruguayano Gonzalo, non era più tornato da New York dove aveva conosciuto la moglie Elizabeth, pittrice figlia di un’ebrea ungherese cresciuta negli States e di un americano discendente di ebrei russi sfuggiti ai pogrom di fine Ottocento. Dopo due anni e mezzo gli Amis tornarono a Londra, dove oggi vivono in simbiosi in una casa di quadri e luce a Primrose Hill con le figlie Fernanda e Clio, tredici e undici anni. Il prossimo libro di Isabel riprenderà i temi di una serie di lezioni universitarie tenute in Colombia, «torture, situazioni kafkiane, Guantánamo».
Identità che si sovrappongono, la dinamica di coppia soffre quando si vogliono le stesse cose? «Non nel nostro caso, di sicuro non siamo in competizione, Martin è un autore così particolare, non c’è partita, anche se molti, per lo più maschi di mezza età, vorrebbero essere lui. Gli scrittori sono persone atroci con le quali vivere, completamente assorti nei loro progetti, è un sollievo avere accanto qualcuno che viva la tua stessa apprensione, fame di tempo e solitudine, che capisca al volo di cosa hai bisogno. Il rischio è vivere una vita senza struttura, in questo i figli sono un elemento di stabilità, dovranno sempre andare a scuola e tu dovrai sempre alzarti per loro. Certo è frustrante conciliare un lavoro così totalizzante con accompagnamenti e lezioni di musica ma ormai abbiamo superato la fase dura, è più difficile quando i bambini sono molto piccoli. Ed è un dono poter amare qualcuno più di te stesso, ti preserva, ti solleva». Ti richiama dal deserto, quella speciale forza di gravità che strappa al moto perpetuo, evita la dispersione e lenisce il bisogno di andare. Dà forma, aiuta a trovare una voce. «Ognuno ha la sua, scrivere è solo un modo per cercarla».
Nel romanzo Jean è una che si è spinta al largo e non sa tornare, l’acqua salata nelle narici e le gambe graffiate dagli scogli come quella volta da piccola, quando c’era suo padre a salvarla. Come accadde a Isabel bambina in vacanza ai tropici con i nonni. C’era il fratello Bruno, sempre lui, bello e senza paura, allora undicenne. La riportò a riva e rimase in silenzio sulla spiaggia mentre i pescatori gli bruciavano gli aculei dei ricci conficcati nei piedi. Bruno sarebbe diventato pittore e scultore. Morì di Aids nel 1994, a trentasei anni, quattro giorni dopo aver sposato la giovane artista tedesca Anke Blaue. «Una morte enorme, per anni non sono riuscita a ricordarlo com’era prima della malattia, atletico e sano. Adesso nella mia mente è del tutto ristabilito, gli chiedo consiglio su ogni cosa. presente nella mia vita. Anche la sorella di Martin, Sally, è morta giovane e tra questi due lutti abbiamo entrambi perso i nostri padri. Quando scompare qualcuno che ti era davvero vicino, che faceva parte della tua squadra di partenza, tutto quel che viene dopo diventa un insperato calcio di rigore. Quest’estate compirò 49 anni, pensare al passato è inevitabile». In una scena il tempo cambia qualità, non scorre ma gira in tondo come le figurine di New York oscurata dal blackout, vagabonde nell’afa e nel buio che divora le forme. «Accadde davvero nel 2003, ero arrivata a New York proprio quel giorno, tutto sembrava possibile, come quando in aereo spegni le luci e potresti essere ovunque... Jean e Mark mi mancano ma per scoprire come saranno i loro cinquant’anni devo scrivere un altro capitolo della loro vita».
Maria Serena Natale