Massimo Mucchetti, Corriere della Sera 09/05/2010, 9 maggio 2010
ETICA DELL’IMPRESA. IL GESUITA E I SILENZI
Mercoledì 5 maggio, mentre la Grecia bruciava, nella sala Buzzati del Corriere della Sera si discuteva di etica e mercato tra il rettore della Bocconi, Guido Tabellini, l’editorialista del Sole 24 Ore, Salvatore Carrubba, il gesuita Giampaolo Salvini e l’economista Luigi Zingales, che già ne avevano scritto in un bel libro (Salvini, Zingales, con Carrubba, «Il buono dell’economia», Università Bocconi editore, 16 euro). Ripensandoci, non saprei dire se la serena eleganza di quella conversazione derivasse dal privilegio di svolgersi in un Paese che, alla fine, non è così litigioso, debole e gramo come esso stesso crede di essere o se fosse alimentata da una mancanza di consapevolezza del futuro analoga a quella dei gentiluomini del Titanic. Ma già il parlare di etica nell’economia è un segno dei tempi.
Prima della Grande Crisi, di etica e affari si occupavano ristretti circoli cattolici, guardati dai laici con disinteresse, perché l’etica riguarderebbe l’individuo e non l’impresa, e spesso con sospetto, perché è viva la memoria dei Sindona e dei Calvi. La Grande Crisi cambia tutto. Fa capire che il solo interesse economico non tiene assieme una comunità, che il fine dell’impresa può essere diverso dal massimo profitto, che l’economia di mercato commette errori rimediabili solo dal governo, che la stessa economia di mercato non si esaurisce nell’impresa capitalista e, a sua volta, non esaurisce l’economia. Il rimedio, si dice, sta in nuove regole, ma le regole si definiscono in relazione ai valori e senza una revisione dei valori dominanti, incentrati sul massimo guadagno individuale, quali nuove regole saranno mai scritte? E poiché i valori si formalizzano nell’etica, di etica si torna a ragionare, anche lontano dai fuochi di Atene.
Padre Salvini crede che l’etica vada oltre il fair play negli affari e il rispetto delle regole. L’etica, dice, pone la persona al centro dell’agire economico: «Oggi, per la Chiesa è molto importante l’equilibrio tra i fattori di produzione: così essa è particolarmente sensibile alle ragioni del lavoro, che spesso risultano soccombenti rispetto al capitale». Capitale, lavoro: Smith, Marx e Benedetto XVI. Il lavoro è da due secoli una merce. Oggi non si ha più la faccia tosta di ammetterlo. Ma si stenta a fare i passi successivi, perché costerebbero a chi quella merce usa su scala globale. Forse, per cominciare, dovremmo saperne di più, del lavoro. Le corporation dovrebbero dare conto non soltanto dei compensi dei top manager, ma anche di quelli medi dei dipendenti, per qualificazione professionale, età e area geografica, anziché annegarli nel costo del venduto, come se il lavoro dell’uomo fosse uguale al minerale di ferro. C’è un’economia delle star, come la chiama Zingales, che si è appropriata del potere e dei denari. Etica vorrebbe che la diseguaglianza fosse almeno annunciata, quantificata e motivata affinché possa essere discussa e magari accettata, ma non subita sotto il velo dell’ignoranza.
Massimo Mucchetti