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 2010  maggio 09 Domenica calendario

FRANCIS FORD COPPOLA - PARIGI

La sua vita di regista è un percorso a rovescio. Prima, sono venuti i trionfi del traguardo. Poi, al tramonto, le nuove «prime volte». Lui si paragona a Benjamin Bottom, il film tratto dal racconto di Scott Fitzgerald sul personaggio nato decrepito e risucchiato anno dopo anno verso l´infanzia letale. Potrebbe anche chiamare in causa, date le robuste ascendenze italiane (tre nonni di Napoli, uno della Basilicata), un´asprigna fiaba antecedente di Luigi Capuana, Tirititùf, già con una bella capriola all´indietro: da una sterile senescenza, sia pur sovrana, ai vagiti di culla, spilli di futuro.
L´anagrafe artistica di Francis Ford Coppola, settantuno anni appena compiuti, si srotola in due giri di boa. Il primo è attorno ai trent´anni, quando, «già sposato, con figli», dopo una decina di stagioni trascorse a girare «piccole pellicole personali», col progetto di «continuare con innocui horror stile anni Cinquanta», gli mettono in mano il libro di Mario Puzo, Il padrino («una storia molto interessante, sa?», ammicca il regista), da cui trarrà nel 1972 il titolo epocale della nuova Hollywood, primo capitolo della saga completata con i sequel ”74 e ”90: « il film che non avrei mai sospettato di girare. Ha cambiato la mia vita: da un giorno all´altro mi ha reso famoso, rubandomi il futuro».
L´altro giro di boa è adesso: «Da giovane ho realizzato pellicole che in genere si affrontano da adulti: La conversazione nel ”74, Apocalypse now nel ”79. Avevo anche messo in piedi, quasi subito, con George Lucas e pochi soldi, gli Studios Zoetrope a San Francisco, appassionante incognita produttiva, per la quale il Torino Film Festival mi ha reso omaggio lo scorso novembre. Solo da qualche anno ho ripreso a dirigere film che avrei voluto realizzare agli inizi, cominciando, nel 2007, da Un´altra giovinezza, da Mircea Eliade, girato con tecnologie all´osso, imparate ai miei esordi dal genio del cinema low cost Roger Corman. Lo considero il primo titolo della mia seconda carriera, in cui mi sto dedicando a piccoli film, che posso pagare con qualche spicciolo».
Il secondo titolo, uscito in questa stagione, è Segreti di famiglia-Tetro: «Da tempo, cercavo una storia di sentimenti, che mi commuovesse: ho pensato alla mia famiglia. A casa, a Natale, ho ripescato in un cassetto una mezza paginetta scritta chissà quando con inchiostro marrone su un uomo calamitato dalla luce dei fari come una falena, e un´altra paginetta su un ragazzo smarrito in una strada buia. stata una folgorazione. Avevo trovato la storia: un ragazzo che cerca un altro. Io e mio fratello maggiore, August, scomparso qualche mese fa. Ho cominciato a buttar giù lo script, non sapevo che cosa ne sarebbe uscito, se non che stavo scrivendo di me: un film realizzato col cuore, come non mi succedeva più da troppi anni». Tetro è un doppio ritorno in famiglia, nella sua biografia ma anche nella sua filmografia: pare un remake di Rusty il selvaggio dell´83. «Infatti avevo previsto di farlo interpretare ancora da Matt Dillon. C´è lo stesso rapporto tra fratelli: il minore ammira il maggiore».
L´ammirazione che lei nutriva per August? «Un fratello straordinario. Ragazzini, era lui che mi dava libri da leggere e mi portava al cinema. Mi ha fatto scoprire Scarpette rosse di Powell-Pressburger prima che potessi capire davvero quel che vedevo. Più grande di cinque anni, era più forte, più intelligente di me e, anche, più seducente. Ha svolto un ruolo di padre, come tutti i fratelli maggiori. Il vero padre, autorità incarnata, è troppo distante. Chi ti educa, chi t´aiuta veramente a sviluppare la tua personalità, è il fratello maggiore». Di quanto gli è debitore? «Di tutto. Quando mio fratello voleva diventare dottore, io sognavo d´essere oftalmologo. Non occorreva che ne divenissi un perfetto clone. Poi, quando ha cambiato idea, decidendo di scrivere romanzi, ho mutato direzione anch´io ma, ancora una volta, senza tagliargli la strada, ripromettendomi di scrivere drammi teatrali. In Tetro, dove il fratello maggiore è "anche" padre del minore, il minore fa di tutto perché il maggiore abbia la gloria che si merita. Neanche a parlarne, naturalmente: i fratelli più grandi non accettano mai l´aiuto dei più giovani. praticamente impossibile per un fratello minore salvare il maggiore».
Nel suo cinema è centrale anche la figura del padre tout court, derivazione autobiografica di Carmine Coppola, flautista nell´orchestra di Toscanini, compositore e direttore d´orchestra, in Italia trent´anni fa sul podio dell´orchestra che accompagnò una monumentale riedizione a Roma del Napoléon di Abel Gance, e ricorrente nei suoi film in colonna sonora (Il padrino II) o di persona (New York Stories) o in filigrana (Tetro): «La figura onnipotente del padre, che il figlio deve spodestare, è un´antica costante della drammaturgia Usa, da Eugene O´Neill a Tennesse Williams. In Tetro, riappare il Big Daddy di La gatta sul tetto che scotta, egocentrico e mostruoso, che però non ha molto a che fare con mio padre. Carmine Coppola, scomparso nel 1991, era assai dotato, ma non era una superstar della bacchetta. Aveva una formazione classica che gli impediva contaminazioni con la musica moderna. Ha fatto fronte a mille difficoltà, ha conosciuto il successo soltanto alla fine, proprio grazie ai miei personali trionfi. Era enormemente frustrato, perché sentiva di valere di più di quel che pareva».
Suo padre. Suo fratello. I suoi nonni italiani. Sua madre Itala, attrice. E adesso i suoi figli, Sofia e Roman, registi. Una grande famiglia, anche una cine-dinastia, dove lei ha il ruolo, patriarcalmente addolcito, del supremo Big Daddy della Gatta di Williams o del Kurz di Apocalypse Now? «Una volta ho detto che dirigere un film è un´ultima forma di dittatura legittima: oggi sono un dittatore deposto o rottamato. Non vedo carriera davanti a me, potrei etichettarmi autore amatoriale: regista retrocesso al debutto - sorride Coppola, illuminando il volto rotondo, rassicurante, da buon orsone di cartoon -. Da tempo, d´altronde, non sono i film a assicurarmi l´esistenza, ma i vigneti, che più volte in passato mi hanno salvato dalla bancarotta cinematografica».
Tra i numerosi vip in celluloide, da Depardieu alla Bouquet, da Stallone a De Niro, che hanno investito in colture o ristoranti, lei è quello che ha opposto la più decisa controffensiva viticola ai capitomboli del grande schermo: i fiaschi dei film salvati dai fiaschi di vino? «Il mio diagramma artistico è un saliscendi febbrile, con tre o quattro sprofondamenti, tra i quali il flop di Un sogno lungo un giorno o la travagliata lavorazione di Apocalypse Now, da cui mi ha ogni volta risollevato la vigna californiana di Napa Valley, il mio kolossal più riuscito: dodici milioni di bottiglie l´anno, "Rubicon" e "Zinfandel", dai dodici ai quaranta dollari l´una. E pensare che la mia prima intenzione, quando ho acquisito quella proprietà con mia moglie Eleonor, nel 1973, non era di produrre vino per il commercio ma solo un po´ per la famiglia, sull´esempio dei miei nonni. Adesso però i profitti in bottiglia superano alla grande quelli in pellicola. E mi permettono di osare nel cinema, senza più problemi, assumendone allegramente ogni rischio. Non riuscirei mai a concepire film indenni da rischi. Il cinema domanda temerarietà: d´investimenti e di sperimentazione. Per me ha significato grandi guadagni e grandi perdite. Sono oggi all´opposto di Hollywood, dove i film vengono monetizzati (movie uguale money): tanto sono costati, tanto devono riportare in cassa».
Il vino, per lei, è solo un salvagente cinematografico? «No, è un modo di stare insieme, di rendere conviviale il lavoro: ogni film è una nuova famiglia, ci riuniamo attorno a grandi spaghettate e buone bevute. anche una filosofia. Quando sul set il clima è iperteso e le riprese sono incidenti a catena (e io ne so qualcosa...), il film finisce per risultare "d´ottima annata". Come per il vino. Ma il budget dei miei film non dipende, purtroppo, dalle vendemmie...».
Le sue apocalissi non sono state solo di celluloide: «No, vi ho aggiunto la catastrofe d´un ordigno, gemello del juke box, destinato non all´ascolto di canzoni ma alla visione di film. Un antesignano del computer. Vi avevo investito una fortuna, sicuro di ricavarne guadagni da Re Mida: perdendo tutto. Oggi non saprei neanche dire com´era fatto: non ne ho conservato nemmeno un esemplare. Anche allora però ho saputo risollevarmi. Credo di dovere l´energia, la caparbietà di risorgere ogni volta ai miei nonni, alle mie origini italiane: ho un passaporto italiano, mi sento italiano, sento in me la forza che gli immigrati italiani hanno trasmesso agli Stati Uniti. Se esiste l´America, è perché è composta al cento per cento da immigrati. Desidero restituire all´Italia un po´ di quanto m´ha dato, costruendo un hotel e altre strutture nel paesino di mio nonno, Bernalda, per rilanciare la sua terra natale, quella regione stupenda che è la Basilicata, che i giovani sono ancora costretti a abbandonare in cerca di lavoro».
Un altro sogno lungo un giorno? La sua vita, non solo artistica, è costellata d´imprese impossibili, di sfide testarde. Ripercorrendola a ritroso, alla Benjamin Bottom, dal vecchio-giovane d´oggi al giovane-vecchio di ieri, tra Coppola a settantuno anni e Coppola a venti trova davvero una differenza? «Una, fondamentale, che c´è sempre in un cineasta agli inizi e alla fine. Alla domanda "Che prevede di fare nei prossimi trenta-cinquant´anni?" a vent´anni non avrei saputo rispondere, mentre oggi lo so».