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 2010  maggio 09 Domenica calendario

L’AMANTE DEL VATE - GARDONE RIVIERA

Cosa resta di quell´amore portentoso, quel vortice che stremava i sensi, dove sono i ricordi di quell´«eccesso di voluttà», delle «giornate portentose e di gaudio», di quei venti mesi di «demenza afrodisiaca», di quella notte leggendaria rimpianta fin sul letto di morte? Dove le reliquie innocenti o scabrose di quella ribollente e tragica ossessione d´amore? Tutto riposa qui, cent´anni dopo, in una torretta del Vittoriale, in una stanza foderata di legni laccati e invasa dal sole con vetrate a picco su uno strepitoso scorcio del Garda. Tutto schedato sotto la voce "MANCINI, Giuseppina" in una ingiallita fiche nello schedario del Vate, con rimando dattiloscritto al palchetto LXXIII, cassetta 4. Era un archivista meticoloso, il divino Gabriele, anche dei palpiti del suo cuore, nonché dei trionfi del suo «gonfalon selvaggio».
O meglio: sono ritornati qui, dopo che per quasi cinquant´anni li si dava per persi, i documenti della storia d´amore forse più passionale, libidinosa e magari perfino sincera nella vita di Gabriele D´Annunzio: le quattrocento lettere che gli scrisse la sua "Giusini", pacchi di buste azzurre bagnate di lacrime, spesso farcite di petali di mughetti e viole da «spargerti sulla faccia», per non dire di quel soffice e non troppo misterioso batuffolo di peluria fulva. Nei primi anni Sessanta la cassetta rossa e blu (i colori araldici del Principe di Montenevoso, incarnazione senile del poeta guerriero) fu trovata vuota, o meglio svuotata. Forse il contenuto era stato preso in prestito, diciamo così, da un passato presidente della Fondazione Vittoriale degli Italiani, però poi la causa legale per ottenerne la restituzione si estinse con la morte del sospettato e le tracce si persero. Ma quel faldone era solo in esilio. Ben custodito nel caveau di una banca di Lugano. Dove lo ha scovato lo scorso febbraio un gran segugio d´archivi, Giordano Bruno Guerri, scrittore, giornalista, saggista e da meno di due anni attivissimo presidente della Fondazione, con la mission già ben avviata di svecchiare e rilanciare la casa d´artista più visitata d´Europa dopo quella di Shakespeare. Merito di Guerri essere riuscito a rintracciare l´ultimo proprietario delle carte perdute, il collezionista di cimeli dannunziani Giovanni Maria Staffieri, e di averlo convinto a «riportarle a casa».
Ed eccole, le lettere di lei a lui, perdute e ritrovate, accolte dalle mani amorevoli di Alessandro e Roberta, gli archivisti del Vittoriale. Finalmente ricongiunte alla loro complementare metà, le lettere di lui a lei, sicché ora è possibile comporre finalmente il quadro a tutto tondo di un piacere, di un fuoco che finora conoscevamo solo nella trasfigurazione letteraria che D´Annunzio riversò in ben due sue opere: l´ormai introvabile Solus ad Solam e il Forse che sì forse che no. Il poeta, si sa, era uso saccheggiare la vita per nutrire l´arte. Anche la «povera Giusini», la «piccola Giusini», alias Amaranta, alias Muriella, Fragoletta, Alis, Adel, Blinì, Sirocchia, Diamanta (D´Annunzio ribattezzava tutte le sue conquiste, perché "rinascevano in lui" - con nomignoli rischiosamente simili a quelli dei suoi levrieri...), ebbe dunque la sua reincarnazione letteraria, mentre il fragile originale umano sprofondava nella malattia mentale, aggiungendosi alla lunga lista di amanti dell´indomito che finirono tragicamente.
Ma la vita stenta a tenere il passo dell´arte. Lo scarto fra romanzi e lettere colpisce. «D´Annunzio in amore era in realtà un uomo dai gusti semplici», smitizza Guerri, forse il più antiretorico tra i custodi dell´eredità del Legionario di Fiume. La relazione con la contessa Giuseppina Mancini, oltretutto, era sulla carta la più borghese fra tutte, per plot, personaggi e scenario: una moglie infelice, un marito beone, smanazzatore di servette e sifilitico, un seduttore impavido, incontri furtivi in stanzette d´albergo e pied-à-terre, lettere indirizzate ai rispettivi servitori per sviare i sospetti, finale con scena madre scontata (irruzione del cocu magnifique dinanzi al talamo adulterino), separazione forzata, disperazione per lui, manicomio per lei.
Materia prima da tardoromantici tipo Prati o Aleardi. Ma non in mano a uno come il Divino, il Re Mida letterario del secolo biedermeier, lo scrittore che dal niente, per puro uso di parole, seppe scandalizzare i buoni borghesi ed elettrizzare allo svenimento le loro consorti. Una delle quali era sicuramente la signora Mancini, nata Giorgi da romagnoli non blasonati. Lei aveva trentacinque anni, otto meno di lui, quando si conobbero vicino ad Arezzo, nella tenuta del marito conte Lorenzo, produttore (e gran consumatore) di vino. D´Annunzio già sulla cresta dell´onda, la Mancini non colta e poco brillante nei salotti, certo non alla sua altezza intellettuale. Le rare fotografie ce la mostrano poco appariscente ma gradevole: forse fu la chioma volpina a colpire la fantasia di lui, forse gli «occhi di sparviera» o l´estremo pallore («una rosa bianca è simile a Giusini»), forse la silhouette molto art-déco, flessuosa e sottile (gran geometra del desiderio, le misurò l´apertura di spalle e la annotò: 38 centimetri). Lui reduce dalla tempestosa relazione con Alessandra di Rudinì ma già ansioso di «riaccender i fuochi dell´officina», lei religiosissima e pudica, preda ardua come la presidentessa di Tourvel delle Liaisons dangereuses.
Si sa, espugnare la virtù è un afrodisiaco sublime per i libertini d´ogni epoca. Ci riuscì dopo un anno di corte serrata, strappandole finalmente il «grande dono» la notte dell´11 febbraio 1907, nelle stanze della Capponcina (la villa toscana che presto i creditori gli avrebbero a loro volta espugnato), in una «sera nebbiosa e molle» accesa da un amplesso destinato a restare leggendario e ineguagliato nella memoria di entrambi, tanto che quel numero undici diverrà magico per D´Annunzio: nello stesso giorno, undici anni dopo, piloterà pensando a lei il Mas dell´avventura di Buccari; nello stesso giorno, trentun anni dopo, prossimo a morire, rievocherà quei «ricordi dolci e laceranti, la mia ultima felicità». E undici erano le salve di cannone che faceva sparare ogni anno dai bastioni del Vittoriale (tornano a rintoccare da quest´anno, per filologica e civettuola decisione di Guerri).
Furono mesi sfrenati, tra pochade e sublime, di convegni amorosi sui pianerottoli, di davanzali scavalcati mentre «il testone» cornificato dormiva, di «baci ansiosi» e acrobazie erotiche che esaurirono ogni energia creativa del Poeta: per quasi due anni non scriverà nulla di memorabile. Il prelievo del batuffolo riccio e fulvo dall´inconfondibile provenienza (non il primo né l´ultimo trofeo del genere: al Vittoriale si conserva una scatolina di crini multicolore) risale alla notte tra il 28 e il 29 agosto, sempre alla Capponcina, come accuratamente registrato sulla busta, etichettata "Filigrana". E naturalmente lettere, lettere, ogni giorno, quelle di lui sonanti come un pieno d´orchestra, quelle di lei al «mio Tristano» penosamente inferiori, con le loro sottolineature infantili, «nella mia anima è un complesso di buone, di folli cose», le ripetizioni enfatiche, «oggi mi sento bambina bambina», «compatiscimi compatiscimi sii buono con me che soffro soffro», che tradiscono l´insufficienza delle parole, o i commoventi sforzi per imitare l´immaginifica prosa del suo pigmalione: quei «chicchi di diaspro sanguigno» che Giusini fa «scorrere fra le mie dita accompagnati dalla prece» nei notturni momenti di «tentazione» quando lui è lontano, sono un santo rosario o qualcosa di ben più intimo e carnale?
Ma quelle di Giuseppina Mancini sono lettere tristi, disperate: misticheggiante nella libidine quanto nel divorante senso di colpa, la grande fiamma di Amaranta si consuma in fretta. Lo schianto è repentino: il marito, stufo di far finta di niente, agisce: scandalo, onta, fuga (ad Assisi l´ultimo pellegrinaggio ascetico-erotico), reclusione, crisi di squilibrio. E quando lei lo invoca con un´ultima telefonata, lui arriva troppo tardi, accampando la più prosaica delle scuse: un guasto alla macchina, mentre lei delira di notte sui selciati di Firenze col «viso consumato e convulso, le labbra disseccate e le gengive sanguinanti». Il manicomio li separerà per qualche anno. Dopo, saranno già lettere da nostalgici vecchi amici. Lei gli sopravvisse per decenni, appartata e silenziosa fino alla morte, nel ”61.
La ricomparsa delle sue lettere non è un evento letterario e sarebbe forse solo una curiosità biografica se non ci svelasse così tanto sulla cultura media dell´Italia di quegli anni. Le modeste lettere di Giusini sono l´altra faccia del dannunzianesimo, primo "stile di massa" dell´era mediatica; testimoniano l´effetto che la prosa funambolica e il mito vitalista del Vate ebbero su quel popolo di lettrici «dolcemente ignoranti» di cui Giusini è la suprema rappresentante, morigerate e frementi, fantasticanti trasgressioni di cui arrossire, che D´Annunzio scoprì, che lo rese ricco, a cui lasciò un galateo di frasi e sentimenti pronti per l´uso. Nel claustrofobico pot-pourri del Vittoriale l´unico monumento a una sua musa è il busto velato della Duse, la superdonna del superuomo. Ma è la Giusini-massa che, alla lunga, trionfò nei cassetti chiusi a chiave delle signore borghesi del nostro Novecento.