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 2010  maggio 10 Lunedì calendario

IL DIAVOLO MEDIOCRE DI PIA BELLENTANI

Dire che un delitto è opera di una società, il risultato matematico di taluni ”fattori ambientali”, è una di quelle offese che il nostro tempo rivolge continuamente alla libertà individuale e alla libertà in genere. I primi a sedersi al capezzale dell’ucciso sono i dogmatici. Ciascuno ha il suo modo di consolare la vedova o l’orfano: modi apparentemente diversi, ma nella sostanza identici.
Indicando il foro del proiettile, il clericale dirà: «Questo perché l’Italia si è allontanata dalla Chiesa. Bisogna riportarla al Vangelo con una buona dittatura di buoni pastori!».
Il comunista dirà: «Questo perché non si è eliminato il capitale, fonte di ogni male. Bisogna risanare la società con una buona dittatura del proletariato!».
Il fascista dirà: «Questo perché non c’è lui! Al suo tempo i colpi di rivoltella gli italiani li rivolgevano al nemico. Bisogna ridare all’Italia lo spirito militare, la capacità di convogliare tutti i suoi odi e rancori contro un popolo straniero. Ci vuole una buona dittatura di uomini arditi!».
Chiunque in Italia spara, sia pure per ragioni strettamente personali, finisce collo sparare contro la libertà, perché i dogmatici usano qui il metodo dei gangsters, di far trovare il loro odiato avversario accanto a chiunque riceva una scarica di proiettili in modo che venga colpito senza che essi siano responsabili della sua morte. Nessuno è disposto ad ammettere che il delitto, nel momento in cui viene compiuto, è un’orrenda scelta individuale che si è fatta liberamente. In quest’ammissione ci sarebbe il principio di una rinascita dell’arte, della responsabilità, della cultura, della personalità.
Ma perché far rinascere siffatte cose, che danno tanto fastidio ai nostri dogmatici? Detto questo, però, dobbiamo subito aggiungere che un delitto richiama l’attenzione generale nel punto in cui stato compiuto.
Una società non è responsabile del male che uno dei componenti ha compiuto uccidendo una persona, ma i suoi costumi, i suoi vestiti, le sue abitudini non possono non venire esaminati dato che qualcuno, da un salotto molto illuminato, ha fatto tanto rumore con una pistola a tamburo. Come ci appare questa particolare frazione della società comasca dai documenti che essa stessa ha esibiti, dalle parole che ha dette nelle deposizioni, dai componimenti poetici che ha fatto circolare?
Come una società priva di passioni, di vitalità e di cultura: sprovvista cioè di quegli impulsi che spingono a grandi atti sia nel bene che nel male. Le persone sono tutte ricche e altolocate, ma la loro personalità è di mezza tacca. I luoghi comuni regnano nei loro cervelli con quell’azione debilitante e sonnifera che hanno i luoghi comuni.
Nella casa del conte Bellentani, ci ha detto la signora Lilian Sacchi, non c’era una biblioteca. «Non ho visto mai un libro. L’unica preoccupazione del conte era quella di non lavorare». Il giorno del mese in cui doveva controllare i conti della sua amministrazione, appariva nervosissimo. Ma passato quell’unico giorno funesto del mese, tornava gaio.
L’unica cura di lui e della moglie era quella di trovare un modo nuovo per passare la serata. Anche in questo campo, l’inventiva non era di alte qualità. Il conte provava il suo godimento maggiore nel sonno del pomeriggio. Dormiva tre ore pesantemente, nel centro del giorno, portando agli estremi l’arte di gustare la vita attraverso il cervello e i sensi completamente ovattati.
Quando si svegliava, era allegro, e subito, insieme alla moglie e agli amici, si dava a vivere socialmente, nel senso di organizzare incontri, gite, giuochi ecc. Questi incontri, queste gite, questi giuochi, secondo alcuni pettegolezzi, davano un largo posto alla sensualità.
Sulla veridicità di queste notizie, non possiamo dire nulla. Ma la cosa che salta agli occhi, da quello che si sa e quello che si comprende, è piuttosto una mancanza di sensualità, di impulsi amorosi anche nel senso fisico. Tutto è fiacco in questa società, anche l’attrazione fisica. Vi è del dilettantismo, addirittura della banalità, anche nei rapporti sessuali. Siamo al di sotto del mediocre, per quanto riguarda la Spiritualità e la Vitalità. La vita è sconsacrata, nel senso che perduto importanza. Il fatto di essere moglie, di essere stati assieme una notte di dire porca ad una persona o di averle detto ”ti voglio bene” non ha più valore.
O almeno ha un valore molto ridotto. In questo ambiente l’industriale Sacchi, che fra l’altro sembra fosse un brav’uomo nel significato comune della parola, in quanto beneficava qualche persona ed era spendereccio e ospitale, diventa un «cinico» e un «poeta scandaloso». Finisce col credere egli stesso di essere un’incarnazione del male e di avere sulla bocca un ghigno diabolico. Diavolo da due soldi, si dà a menare strage fra donne veramente immature. Molte di queste donne si assumono il compito di convertirlo al bene, di strapparlo all’inferno ove probabilmente non sarebbe mai andato.
Ma com’era possibile convertire il povero Sacchi? Si convertono i grandi peccatori non questo padre di famiglia, dal fondo sentimentale come la Bellentani stessa (i due si somigliavano più di quanto si possa immaginare), e che dopo la morte della sua bambina compose una lunga poesia deamicisiana? Egli stava benissimo sulle sue posizioni di male, delle quali conosceva la mediocrità. Gli servivano per sedurre qualche provinciale diventata contessa, o qualche cortigiana ”perversa” ma fondamentalmente inesperta di cosa siano il vero cinismo e la vera ironia, come tutte le cortigiane. Nel suo famoso ”brogliaccio”, egli ricorreva alle parolacce nelle quali, come tutti sanno, sia la libidine che la malevolenza si dissolvono, per lasciar posto, secondo i casi, o alla collera o allo scherzo o alla volgarità o addirittura ad una sincerità popolaresca. […] Nessuno vuole negare la volgarità di Sacchi. Ma è una volgarità media, quella che si trova in Italia nel novanta per cento delle conversazioni, quando si passa alle storielle fra l’allegria generale.
Pia Bellentani s’era partita dalla provincia, con la mezza educazione romantica dei collegi religiosi, con una ben chiara incultura, una ben chiara mediocrità spirituale ed un ricorrente mal di capo che nell’esame dei nostri poeti della psichiatria, è diventato malinconia, presentimento della morte ecc. Con queste attitudini mediocri, il piacere di assegnarsi una mediocre opera redentrice per un diavolo dell’industria tessile non poteva non sedurla. [...]
In una lettera, la Bellentani scrive al Sacchi: ”Tu hai suscitato in me sensazioni mai conosciute, hai svegliato in me impressioni nuove; hai sconvolto insieme il mio cuore ed i miei sensi; mi hai fatto conoscere veramente ciò che si chiama amore. Attraverso questo amore io sento di essere diventata oggi una donna completa. E poiché lo devo a te ti ringrazio moltissimo.
E’ la sola volta che non si parla di redenzione, di male e di bene. Il Sacchi viene ringraziato come un uomo comune che l’abbia svegliata dalla freddezza comune a tante donne riportandola alla comune sessualità. Sì, ci sono frasi come ”sensazioni mai conosciute” e ”cuore e sensi sconvolti”.
Ma chi non ha salutato con frasi simili l’apparizione normale del normale piacere? E poi, se vogliamo essere sinceri, dobbiamo azzardare un dubbio: non crediamo molto a questi sensi sconvolti. Tant’è vero che, dopo, non se ne parla più.
Ci sembra che, con queste frasi, la contessa voglia lusingare la vanità dell’uomo perduto per sedurlo nel suo cielo da letteratura ungherese. In tutta quella società, i sensi giocano poco, come del resto la mente. Anche se son vere le esibizioni di nudità, il nostro sospetto non cambia. La mancanza di pudore uno dei primi segni di una sensualità fiacca. Per un vero sensuale certe parti del corpo sono possenti e paurose, legate alla fatalità cui egli si sente soggetto.
Non le mostra né le vuole mostrare con tanta leggerezza. Del resto, anche quei viaggi a Capri con tre donne di Sacchi, quel suo bisogno di ”giocare” con sei donne contemporaneamente, ci avevano avvertito che eravamo in presenza di un dilettante di libertinaggio, e non di un sensuale.
E allora? Come mai questo delitto?
Lasciamo ai nostri dogmatici l’improntitudine di rispondere con disinvoltura. Dal punto in cui un uomo o una donna sceglie di fare il male, e nella forma estrema com’è quella di uccidere, comincia il mistero personale, qualcosa che ce lo rende pietoso. Qui bisogna andare cauti, e dubitare delle proprie parole, e addirittura impedirsi di giudicare lasciando ai giudici il grave compito di cancellare l’irregolarità che l’assassinio ha portato nella macchina sociale.
Ma visto dall’esterno, il delitto è scandaloso per il suo contrasto con l’ambiente in cui è avvenuto, ambiente sfornito di passioni e impulsi. La società che ha scaricato la rivoltella, per la mano di Pia Bellentani, non aveva alcuna carica. Né si può confondere questo col delitto ”gratuito” di alcuni giovani francesi che avevano letto Les caves du Vatican. Qui il delitto aveva una spinta terribile: si trattava di sperimentare un nuovo genere di male, un male completamente privo di scopo pratico, un male allo stato puro. La cultura vi entrava prepotentemente, e con essa una complessità umana che, usata diversamente, può perfino arricchire la società.
Vero è che quel delitto diede a molti corrispondenti italiani da Parigi il pretesto per gridare contro la cultura e invocare la censura (come si vede, nel nostro paese tutti i salmi finiscono in gloria della dittatura), ma il fatto è che, tolta la ripugnante disposizione al male che è in ogni delinquente, rimaneva un residuo molto singolare. Nel delitto di Villa d’Este, tolto il male, non rimane nulla, fuorché un’infinita banalità.
Nelle lettere ”circolari” con cui Sacchi licenziava le sei amanti, accanto al motivo per cui veniva abbandonata una signora (’perché ha il seno molle”), c’era quello per cui veniva licenziata la Bellentani: ”perché è troppo intellettuale”.
Troppo intellettuale! L’ingenuità con cui Sacchi crede troppo intellettuale la Bellentani è forse più grande di quella con cui la Bellentani crede Sacchi un cinico. Sono gl’ingrandimenti a cui si sottopongono a vicenda le personalità inferiori alla media.
Intellettuale la Bellentani! Nel manicomio di Aversa ella si sarebbe data all’introspezione. I giornali hanno pubblicato il suo memoriale, scritto in un gergo mistico, psicanalitico e talvolta avvocatesco. Ha tutta l’aria di un’opera promiscua, e non si può prenderla sul serio.
La letteratura è stata coinvolta all’ultimo momento in questa faccenda. Vi è stata portata con la forza. E’ la letteratura dei medici bravi e dei bravi avvocati. In nome della vera letteratura, non possiamo che respingere anche lei.
La Bellentani è quella dei componimenti poetici e delle lettere. Quest’altra ”creatura” che si avanza lentamente verso il suo destino, avvertendo in ogni rumore un presentimento di morte, è una falsificazione in extremis. E poiché in ogni falsificazione si nasconde un atto di prepotenza, non ci riesce facile tollerarla.
Lasciamo i mediocri alla loro mediocrità. Non commettiamo con questo la crudeltà di esporli maggiormente alla collera della giustizia. Perché la mediocrità ha gli stessi diritti dell’intelligenza, anche quelli di essere compresa e compatita.
Dopo aver respinto tutti gli equivoci sugli antecedenti dei dramma e sulle persone che vi parteciparono, ci fermiamo.
Il momento in cui la Bellentani scelse di sparare invece che di non sparare è oscuro. Perché premette il grilletto, passando in un attimo nella schiera degli assassini?
Il Sacchi disse veramente quella frase ”irridente”? E se la disse, fu l’aspirazione ad esser presa sul serio, a conquistarsi con tutti i mezzi una personalità rilevante, sentimenti molto normali in chi manca di personalità, a spingere la contessa a sparare?
E se il Sacchi non disse quella frase, fu la semplice gelosia, diventata improvvisamente forte in quell’ambiente di passioni deboli, a far sì che una donna in ermellino si avvicinasse risoluta a un uomo seduto vicino alla moglie e gli sparasse nel fianco?
O accadde invece che in quella vita sconsacrata, ove nessun fatto aveva un significato importante, anche gli oggetti prendessero d’un tratto il loro valore, e la contessa adoperò la rivoltella come un’arma che funzionasse solo a metà, impaurendo soltanto, ”intimorendolo”, come ella ha detto poi, senza uccidere né ferire?
O una contrazione nervosa delle dita, destinata unicamente a scaricare un moto di disperazione, o di semplice rabbia, si trasformò nel gesto con cui un delinquente esprime all’avversario la sua volontà di non farlo esistere più?
I giudici stanno per dare la loro risposta. Noi non ci sentiamo di darla. E ci auguriamo che i risultati del processo, e la verità stessa, siano tutti a favore di questa mediocre e disgraziata donna.
Vitaliano Brancati