Mario Ajello, Il Messaggero 8/05/2010, 8 maggio 2010
AULE VUOTE E PARALISI ISTITUZIONALE, FINITA LA POLITICA
A dirla brutalmente, verrebbe da esclamare: è finita la politica! A dirla in maniera più elegante, attraverso le parole del sommo Aldo Moro, si può sintetizzare così: «Meno si fa e meno si sbaglia». Ovviamente, Moro era ironico e amaro ma purtroppo preveggente. Una sensazione come minimo di paralisi, e più ancora di totale logoramento e di malinconico disfacimento, è quella che sta producendo in queste settimane la politica nel suo complesso.
Canti, controcanti, involuzioni autoreferenziali, incursioni giudiziarie, assenze in Parlamento, grave deficit di attività legislativa, establishment senza bussola, incapacità di fare sistema. Guai a tentare qualsiasi paragone con la fase terminale della Prima Repubblica, perchè Tangentopoli fa storia a sè. E tuttavia, bastava guardare l’altro giorno l’emiciclo di Montecitorio scandalosamente quasi vuoto - mentre il ministro Tremonti spiegava le misure da intraprendere in favore della Grecia, cioè parlava di una crisi che riguarda anche noi da vicinissimo - per rendersi conto dell’atmosfera crepuscolare. In un momento, e questa è l’aggravante, che la politica dovrebbe vieppiù mostrarsi in salute, viste le sfide dure che ha davanti a sè, a cominciare da quelle riguardanti il mondo dell’economia.
Le Camere che s’impaludano sfuggendo ai problemi reali sono quelle che il giorno successivo al match Lazio-Inter ribollivano di presenze, di passione e di discussione fra favorevoli e contrari all’inciucio nerazzurri-biancocelesti. E i parlamentari che hanno marcato visita durante il dibattito sull’agonia della Grecia ieri straparlavano sul caso Totti-Balotelli: giusto il calcione oppure no? L’anti-politica, in assenza di politica, è destinata a lievitare e con questo andazzo l’anti-parlamentarismo rischia di assumere accenti insidiosi come ai tempi ottocenteschi dei «Moribondi di Palazzo Carignano» (il parlamento sabaudo) o come quando D’Annunzio sorvolava Montecitorio scaricandogli sopra un pitale. In tutto ciò, il governo non ha colpa? Osserva il ministro dell’Attuazione del programma, Gianfranco Rotondi: «La morte della politica precede di molto il nostro governo. E comunque, evitando i catastrofismi, anche noi dobbiamo fare autocritica. Aldo Moro diceva che un politico dev’essere alimentato dal principio di non appagamento. Noi, invece, ci sentiamo troppo appagati, troppo tranquilli a causa dell’inconsistenza del Pd e dovremmo sforzarci molto di più nel coinvolgere i nostri parlamentari. Berlusconi lo fa, noi ministri invece no». E intanto sta venendo giù tutto? «Non vedo - incalza Rotondi - questo rischio. Nè complotti. Nè orientamenti politico-culturali comuni, come fu invece per Mani Pulite, nelle azioni delle varie procure».
Di sicuro, però, c’è che Montecitorio lavora dieci ore a settimana, e che mai come adesso la produzione legislativa è stata così fiacca. Un bel libro appena pubblicato dal Mulino - «Il nemico in politica», a cura di Fulvio Cammarano e Stefano Cavazza - va alle radici del problema di quella che sbrigativamente chiamiamo la fine della politica, le cui ragioni sarebbe sbagliato ridurre alla nuova questione morale. «Lo spazio politico - si legge in queste pagine - vede il proprio centro di gravità spostarsi dai luoghi di decisione e di definizione della legge, verso i luoghi di comprensione e di costruzione dell’opinione pubblica. I personaggi abili nel conquistare i favori dei sondaggi e dei media tendono così a sostituire i tecnici del dibattito parlamentare. Questa inversione dei rapporti è lo specchio della confusione attuale».
Di fatto, invece di strologare sul nulla delle elezioni anticipate sì o no (ovviamente, no), un buon inizio per risalire la china sarebbe quello di riconoscere che un intero quadro istituzionale sta saltando. Nel disamor di patria.
(1-continua)