Giuliano Rotondi, Oggi, 12 maggio 2010, pag. 44, 12 maggio 2010
CHE ORRORE QUELLE NOTTI NELLE MANI DI AL QAEDA
Cannoli di ricotta, cassata siciliana e rosolio. Sergio Cicala, 65, e la moglie Philomene Kabouree, 39, hanno bisogno di dolcezza. Dal 18 dicembre al 16 aprile, quattro mesi nel Sahara in mano a gruppi ribelli legati ad Al Qaeda, hanno lasciato il segno. Marito e moglie avanzano tra la folla con movimenti lenti. Entrano del palazzo del Comune e nella sala consiliare ricevono la stretta di mano del sindaco Gaetano La Fata, l’abbraccio di parenti, amici, conoscenti e tantissimi sconosciuti. Vengono tempestati di domande. Rispondono pacati. Unica reazione infastidita quando qualcuno in sala chiede lumi sul giudizio severo espresso nei loro riguardi dal ministro La Russa.
«Ci hanno presentati come avventurieri e imprudenti», ha ribattuto Cicala. «Non è così. Ignazio La Russa certe insinuazioni poteva anche risparmiarsele. Avrei voluto vedere lui nei nostri panni. Comunque lo ringraziamo per quanto ha fatto. Adesso, se permettete, vorremmo riposarci. Non vediamo l’ora di rimetterci in viaggio».
SABBIE BOLLENTI
A riflettori spenti, Sergio e Philomene sembrano più distesi. E in esclusiva per Oggi concedono la prima intervista dopo la liberazione dall’inferno di fuoco e sabbia in cui sono rimasti prigionieri fino al 17 di aprile. «In prigionia ero bendato e adesso con tutta questa luce mi fanno male gli occhi. Ma vedo benissimo dentro di me», commenta Sergio Cicala «Avventuriere io? Amante dell’avventura, mi sembra più corretto. Mal d’Africa? Sì, esiste. E io sono un malato grave».
Ha mai avuto paura di non farcela?
«Sì, soprattutto all’inizio. tutto capitato così alla svelta che non c’è stato il tempo di ragionare. Il 19 dicembre eravamo in viaggio sul mio Fiat Iveco al confine tra Mauritania e Mali, a poca distanza da Kobeny, un migliaio di chilometri a sud-est dalla capitale mauritana Nouakchott. Era tarda mattinata e tutto filava liscio. Poi è iniziato l’inferno. C’è stato il rumore assordante delle armi automatiche e una sventagliata di mitra mi ha costretto a bloccare l’auto. Eravamo circondati. Saranno stati una quarantina. Tutti armati e tutti col volto coperto.
Ci hanno fatto scendere e a spintoni ci hanno fatti salire su un loro mezzo. Mi sono preso in faccia il calcio di un kalashnikov, l’unico atto di violenza in quattro mesi di prigionia. Non ho battuto ciglio. Qualsiasi reazione ci sarebbe costata la vita». Ha avuto l’impressione che vi stessero aspettando o che qualcuno li avesse informati del vostro arrivo?
«Non so, ma un amico spagnolo mi disse che da quelle parti ce l’avevano con gli italiani e che avrei fatto bene ad attraversare il confine tra Mauritania e Mali non sulla strada asfaltata, ma su quella carrozzabile. Alla fine però noi siamo stati rilasciati e in mano ai guerriglieri sono rimasti due spagnoli, uno ferito gravemente alla gamba per un colpo di pistola. Poveretto, non so quanto potrà resistere in quelle condizioni. Quello che posso posso dire è che i rapimenti continueranno. Lo so per certo».
AL CAMPO BASE
Sergio Cicala parla a ruota libera. Il suo è un racconto a tratti preciso e molto dettagliato, a tratti nervoso, con numerose lacune, forse dovute alla perdita della cognizione spazio-tempo e al timore che qualcuno potesse fare del male alla moglie. «Posso raccontare ciò che non ho rimosso», continua Cicala. «I sequestratori, per esempio, non si aspettavano che fossi con una donna del Burkina-Faso. Mi rassicurarono subito che avrebbero avuto per lei il massimo rispetto. Così è stato. Dopo il rapimento ci hanno portati in quello che deve essere il loro campo base. Ci hanno lasciati in una capanna buia, ma solo per poche ore. Il resto della prigionia l’abbiamo passato in pieno deserto, dormendo all’addiaccio, con la protezione di una coperta e la sorveglianza di almeno dieci guardie armate. Ricordo la nostra prima cena. Pane insipido e latte di capra».
ABBRACCIATI PER RESISTERE
Dopo le prime notti sotto le stelle che cosa è accaduto?
«Io e mia moglie siamo rimasti abbracciati per ore, consolandoci e facendoci coraggio. stata dura. Rimanere tutto il giorno sulla sabbia ti fa perdere le forze. E la dieta non ci aiutava certo a recuperarle. Da mangiare ci davano pasta e riso, da bere acqua e thè caldo. Poi per me sono cominciati anche gli interrogatori».
Cosa volevano sapere? «Con il mio carceriere e unico interlocutore si era instaurato un rapporto di fiducia. Voleva sapere perché l’Italia aveva mandato le sue truppe in Iraq e Afghanistan. Ho risposto che l’intervento dei nostri militari aveva scopi pacifici e umanitari. Mi ha chiesto degli sbarchi di immigrati in Sicilia e di tutti i suoi connazionali morti nelle traversate. Gli ho detto che i pescatori siciliani gettano in mare le reti pur di salvare gli extracomunitari e quando li salvano gli danno acqua e cibo. Ho avuto un momento di difficoltà quando mi ha detto, convinto, che a Milano volevano introdurre i bus per soli bianchi e soli neri. Ho allargato le braccia e gli ho risposto che forse qualche amministratore locale era impazzito. Li avete votati voi, ha ribattuto lui. Ma poi non è più tornato sull’argomento. Ha anche parlato dei morti libici davanti all’ambasciata italiana di Tripoli dopo che un deputato [Roberto Calderali, ndr] aveva indossato una maglietta provocatoria contro l’Isiam. E stata dura ma colpo su colpo ho ribattuto a tutto».
Interrogatori brevi. Ma quattro mesi sono lunghi. Come avete trascorso il resto della prigionia con gli amici di Bin Laden?
«Gli interrogatori sono andati avanti per settimane. Ma il peggio era quando non succedeva niente. Una noia mortale. Con le guardie discutevamo in inglese e nella lingua di mia moglie. La maggior parte di loro era di colore, ma alcuni erano bianchi. Più volte ho chiesto chi fossero. Si sono sempre qualificati come un gruppo armato di ribelli collegati ad Al Qaeda. Se lo fossero davvero non lo so. Visto che faccio quella strada almeno una volta l’anno ho chiesto di avere un lasciapassare. Il mio carceriere era d’accordo, gli altri no. Se mi rapite una seconda volta, ho scherzato con loro, mi dovrete mantenere perché dall’Italia non si muoverà più nessuno per venire a salvarmi».
Quando avete avuto la certezza della vostra liberazione?
«Mai, solo quando ce l’hanno comunicato. La mattina del 16 aprile ci hanno fatto alzare e ci hanno abbandonato più o meno dove ci avevano rapiti. Quando abbiamo visto militari e polizia del Mali venire verso di noi abbiamo capito che era finita. Che potevamo rivedere la Sicilia».
Ascoltando il marito, Philomene Kaboree tira un sospiro di sollievo.
«Credevo di avere le ore contate», dice la donna, «ma Sergio non mi ha mai fatto mancare il coraggio per andare avanti. I nostri sequestratori si fidavano di noi. Un giorno hanno dimenticato le chiavi su una delle loro auto. Noi abbiamo sorriso facendo capire che tentare una fuga attraverso il deserto per noi non avrebbe avuto senso».
Non l’hanno mai interrogata?
«Veri e propri interrogatori no. C’era un autista che si ostinava a mostrarmi le foto di bambini palestinesi massacrati dal fosforo bianco. Erano immagini terribili e lui insisteva a mostrarmele, lasciandomi intendere che parte delle responsabilità ricadevano anche su di noi in quanto amici degli israeliani».
Per la vostra liberazione si è parlato di un riscatto da 2 milioni di dollari. Vero o falso?
«Non so nulla», interviene Cicala. «Quello che posso dire è che siamo vivi grazie al nostro coraggio e ai rapporti instaurati con i nostri carcerieri. L’intervento del Mali, del Burkina-Faso, della Mauritania e delle autorità diplomatiche italiane ha fatto il resto».
IL CONTINENTE NERO
Cicala e consorte torneranno in Africa quanto prima. Sicuramente dopo le nozze della figlia di lui, Alexia che tanto ha fatto per la liberazione del padre e di sua moglie. L’Africa è una malattia, ha già detto l’esploratore siciliano. Una malattia che ha già pagato a caro prezzo.
« Il 3 gennaio 1994 ho perduto Rati, la mia prima moglie», conclude Cicala. «Lei finlandese e io siciliano avevamo in comune un grande amore per il Continente nero. Su una pista tra Niger e Ciad finimmo su una mina. Ho visto tardi una pietra davanti a noi, ho sterzato per evitarla ma non ce l’ho fatta. Sotto c’era un ordigno. L’esplosione ci sbalzò in aria. Avevo un dolore lancinante alla gamba. Una scheggia si era conficcata nella coscia. Ero tutto sporco di sangue e gridavo aiuto. A pochi metri da me vidi il corpo esanime di mia moglie... Il prezzo che ho pagato per il mio mal d’Africa è stato altissimo ma debbo tornare. Laggiù, oltre questo straordinario mare di Sicilia, mi sento davvero a casa».