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 2010  maggio 07 Venerdì calendario

L’UOMO CHE AVREBBE POTUTO ESSERE RE CARLO IV

Se il mondo fosse ancora come nel 1850, a Napoli ci sarebbe un re e si chiamerebbe Carlo IV, avrebbe 46 anni, sarebbe alto e biondo, più simile a un monarca mitteleuropeo che a un principe mediterraneo. Oggi il suo nome ufficiale, riportato dall’Almanacco reale, suona così: «Sua altezza reale il principe don Carlo Maria di Borbone delle Due Sicilie, 18° duca di Castro, Gran maestro del Sacro militare ordine costantiniano di san Giorgio» eccetera, eccetera.
Appena lo incontriamo ci tiene a precisare che lui non è «nostalgico di niente», e comunque parlare con lui dell’Unità d’Italia è una cosa quantomeno imbarazzante, se non proprio di cattivo gusto. Ma proviamo a chiedere se, dopo così tanto tempo, non sarebbe il caso di chiudere la contumelia e fare un patto di pacificazione nazionale. Il principe - vissuto tra Cannes e New York - risponde in un italiano fluente, ma che tradisce la formazione francese: «Certo che sarebbe il caso - ci dice -. Anzi, dovremmo fare una cosa del genere: è ormai tempo di abbandonare settarismi e partigianerie. Ma la pace si fa avendo il coraggio di riconoscere la verità storica per quello che è stata. Non si può semplicemente mettere una pietra sopra a tutto, perché così le tensioni e le divergenze non si sanano».
Si capisce, dal suo parlare, che c’è un gravoso peso della memoria da rimuovere, un lungo silenzio durato un secolo e mezzo, durante il quale avuto opportunità di parola solo «gli altri». Per ritrovare concordia - ci dice - «bisognerebbe iniziare dalla rimozione della ”damnatio memoriae” che grava sulla mia famiglia». E spiega: «Se si va a leggere la parola ”borbonico” sul dizionario, c’è scritto ”arretrato, reazionario”. E’ possibile? I miei avi avranno anche fatto qualcosa di buono, o no?».
Lui che vive a Roma sa come nei quartieri edificati a fine Ottocento si sia fatto un uso generoso della toponomastica celebrativa nei confronti dei membri di Casa Savoia. E per i suoi avi, sovrani e principi del Sud? Nulla. «Ora - racconta Carlo di Borbone - c’è qualche via intestata loro, ma in città minori. Una, mi pare, a Battipaglia. Anche questa, io credo, è una violenza alla memoria di una parte importante del Paese: i Borbone non sono stati tirannelli da villaggio che hanno preso il potere ”manu militari”, sono stati - comunque li si voglia giudicare - legittimi sovrani di uno Stato, al pari di tutti gli altri sovrani italiani».
Vostra altezza chiede una piazza per Francesco II a Napoli? Chiediamo. «Non chiedo niente - replica - invito a riflettere. Ognuno tragga le sue conclusioni. Così come invito a rileggere alcune verità storiche che sono rimaste nell’ombra per troppi anni. Il Risorgimento non è stato solo una marcia trionfale: ci sono state violenze ed efferatezze da parte dei vincitori. Penso, per esempio, al campo di prigionia di Fenestrelle o a quello delle Lande di San Martino, in Piemonte, dove furono deportati e assassinati migliaia di soldati del regolare esercito del Regno delle Due Sicilie. Ancora oggi entrando a Fenestrelle si legge su di un muro "ognuno vale non in quanto è, ma in quanto produce". Ci ricorda nulla?. Che vuole, la storia l’hanno sempre scritta i vincitori, e lo Stato unitario ha deciso di infierire sui vinti».
Certo, questi anni non sono trascorsi invano, c’è stata una riflessione collettiva sul nostro recente passato: «L’opinione pubblica è molto cambiata - dice il principe - Giro molto il Sud e la Sicilia e la gente ha affetto per noi, perché ha rispetto per la propria storia. I libri di testo nelle scuole sono cambiati molto meno, per quel che ne so».
Facciamo notare che anche la Chiesa, che con il processo unitario ha perso il suo potere temporale, parla oggi dell’unità d’Italia come di un valore. «L’unità d’Italia - replica il principe - è, prima di tutto, un fatto. E non ho nostalgia di nulla. Questo sia chiaro. Oggi vivo a Roma, ho un buonissimo rapporto con tutte le autorità italiane, delle quali ho il massimo rispetto. Ho avuto modo di incontrare il signor Presidente della Repubblica, ho nominato il ministro degli Esteri Frattini cavaliere dell’ordine costantiniano di San Giorgio. E comunque l’unità d’Italia si poteva fare anche con noi. Questo forse nelle scuole non si dice. Ma c’era una corrente di pensiero politico che voleva un’unificazione nazionale realizzata dai Borbone: sarebbe stato uno Stato federale, con 150 anni di anticipo. E non ci sarebbe stata una guerra logorante con la Chiesa».
Alle dispute politiche che riguardano il nostro Paese, oggi, il principe si sottrae e «tuttavia - ammette - osservo, come cittadino, che c’è una certa freddezza, anzi quasi un certo imbarazzo da parte del governo nella gestione di queste celebrazioni dell’unità: si fanno perché si debbono fare, ma grandi slanci non ne ho visti. Mentre a noi piacerebbe molto, finalmente, ritrovare una vera unità e una vera concordia. Ma nella verità».