Paolo Martini, Chi, n. 19, 12/05/2010, pp. 54-60, 12 maggio 2010
Roberto D’Agostino CENTO DI QUESTI DAGO Non ve lo aspettereste mai, ma si vola subito in alto: eppure quest’uomo è tutt’uno con un marchio inconfondibile di retroscena e pissi pissi e titoli da leccarsi gli occhi, Dagospia, che festeggia il traguardo dei primi dieci anni di attività giornalistica via Internet
Roberto D’Agostino CENTO DI QUESTI DAGO Non ve lo aspettereste mai, ma si vola subito in alto: eppure quest’uomo è tutt’uno con un marchio inconfondibile di retroscena e pissi pissi e titoli da leccarsi gli occhi, Dagospia, che festeggia il traguardo dei primi dieci anni di attività giornalistica via Internet. Ma, curiosamente, per marchiare il suo corpo di tatuaggi, all’alba dei 60 anni passati, ha scelto una vistosa composizione di immagini religiose: una croce che erompe dalla carne lacerata, la Madonna e Gesù, un teschio incoronato di rose rosse che viene dal cattolicissimo Messico, dove la morte non è considerata altro che un traguardo. E non è tutto qui: sotto la croce, c’è pure una frase di un grande artista dell’avanguardia tedesca, Joseph Beuys, che Roberto D’Agostino si è fatto tatuare in corsivo antico sulla lunga cicatrice, traccia di una brutta operazione ai polmoni che l’ha inchiodato due mesi sul letto di una clinica. La citazione, "Zeige deine Wunde(r)", gioca sull’ambiguità in tedesco tra "Wunde", ovvero ferita, e "Wunder", cioè miracolo. E così, altro che le invenzioni geniali e crudeli di Dagospia, Roberto diventa subito un perfetto divulgatore: « la celebre esortazione a Gesù dell’incredulo San Tommaso, "mostrami la tua ferita", che Beuys amava leggere pure come "miracolo" (aggiungendo una "r"), così che possiamo considerare sia ferita, sia miracolo alla stregua di vere e proprie aperture mistiche». Vabbè, prendere o lasciare. "Dago", come lo chiamano da sempre gli amici, è davvero così. Sembra che mescoli con disinvoltura cultura e gossip, fede e cinismo, indignazione e disincanto, generosità e crudeltà, passato e avvenire, sempre rigorosamente all’insegna del divertimento e del sorriso. Domanda. A ripensarci, anche la sua avventura professionale cominciò con una "miracolosa ferita", quando fu cacciato dal settimanale L’Espresso per avere riportato una battutaccia sull’avvocato Agnelli. Risposta. «Ma sì, era solo un aneddoto su quello che avrebbe detto ad Auckland l’armatore di Luna Rossa Patrizio Bertelli dopo che la sua barca era stata visitata da Agnelli e da quel momento non aveva più vinto niente. Già, tutti sopportano tutto, ma mai scrivere che una persona porta male! (Se avessi scritto "gufare", non sarebbe successo niente, ma scrissi "porta sfiga"). Mi incavolai da pazzi con "i poteri marci" (qui bisogna cominciare a prendere confidenza con il Dago-linguaggio, fatto d’invenzioni e di storpiature al fulmicotone: si usa dire "poteri forti" per indicare i circoli economico-finanziari più intoccabili, ndr). Ma la mia amica Barbara Palombelli, con la sua consueta energia, mi invitò a smetterla di crogiolarmi nell’italica cultura del piagnisteo e mi spinse ad aprire un mio blog, come aveva fatto lei. Del resto, anche Nanni Moretti ha fatto qualcosa di simile al cinema: invece di stare lì come un Michele Placido a brontolare, fingendo di non sapere che dietro la Medusa c’è Berlusconi, l’autore di lo sono un autarchico si è aperto la sua piccola casa di produzione, il suo cinema, la sua distribuzione». D. In questi dieci anni, Dagospia ha messo alla berlina parecchio gli uomini di potere, più ancora che quelli dello spettacolo. Come mai? R. «II divismo, non solo in Italia, appartiene ormai ai giornali di ieri. I grandi divi dello spettacolo di una volta non esistono più. Tra GF8 e GF10, Isola 5 e Talpa 3, Amici 7 e Pupe 2 non ci si capisce più una mazza. Le nostre pupille sono flagellate da tanti "morti di fama" (e non di fame, ndr), tutti mezzidivi e divosi, simildivi e divetti che hanno impresso sulla fronte la data di scadenza, come lo yogurt. Forse l’unico personaggio forte di oggi, cotto e coatto, degno della commedia italiana di Dino Risi (Poveri ma belli), è Fabrizio Corona. Ma sono problemi vostri, che dovete dare le copertine. Se fai un titolo su Internet, dove hai in diretta l’indice di lettura dei singoli articoli, scopri subito che al navigante web interessano più le peripezie di Geronzi (il banchiere romano appena salito al vertice del grande conglomerato delle Assicurazioni Generali, ndr) che le banalità di Bonolis, si clicca più l’evoluzione degli affari di Telecom che quella di Ciao Darwin». D. Sarà anche vero, ma poi a sconvolgere questo quadro basta una Canalis che si fidanza con Clooney. Ora a Milano si chiacchiera addirittura di un flirt segretissimo tra Ely r l’inavvicinabile e cattolicissimo allenatore-star dell’Inter, Josè Mourinho. Assurdo! R. «Ma solo perché a noi, a tutti, piace la favola, il racconto, la storia impossibile. quasi una fiction che si gira intorno alla ragazzina sardo-burina che conquista il divo del Nespresso... Se la Canalis arriva a un Clooney, questo ti fa capire anche la decadenza del divismo americano. Manca solo una seratina dei nostri eroi con Lele Mora e Corona alla discoteca Hollywood, magari con rissa, e poi per Clooney calerà come una mannaia la scure del Marziano a Roma di flaianesca memoria (’Arieccolo!”)». D. Sì, però sono più suscettibili di un presidente dell’Iran. Prenda Alba parietti, che ci tormenta con le sue smentite e i suoi casi: ora è stata persino ”epurata” da Raiuno. R. «Ma io dico: dieci, cento, mille Parietti! Ogni giorno se ne inventa una. Irresistibile, ci rende la vita più eccitante, alla fine si campa così: più casino c’è, più siamo a casa. L’ Italia non è una nazione tragica, siamo un Paese Cafonal, come Umberto Pizzi testimonia ogni giorno su Dagospia, fotografando cene e feste, convegni e presentazioni di libri. Il cafonalesimo non è la cafoneria, ma la cafoneria che si trasforma nel massimo rito sociale della comunicazione. Cafonal è l’esibizionismo pacchiano, che travolge tutti. Perché tutti vogliono comunicare agli altri chi vorrebbero essere, tentando di far dimenticare chi sono veramente». D. Mai fatto errori, preso cantonate, bufale? R. «Anch’io sbaglio, certo. Non sono mica Batman. In questi dieci anni ho preso le mie cantonate storiche, ho scritto cretinate mastodontiche e ho chiesto tante volte scusa. Per esempio, ad Afef. Le sciure milanesi ce l’avevano con lei perché si era pappata Tronchetti Provera. Facevano a gara a mandarmi notizie. Linciaggio di carattere razzista con sottofondo di invidia. Afef giustamente si incazzò. Mi sono pentito di avere esagerato. Le ho chiesto scusa». D. A proposito di ieri, una volta Dagospia era più impietoso con certi cantautori impegnati, Piero Pelù soprattutto, ma anche Jovanotti. Con questi è diventato più buono: perché? Insomma, c’è una speranza di salvezza anche per altri Vips o S-Vips? R. «Un po’ di pia misericordia. Ormai non vale più la pena nemmeno di mostrare la dentiera avvelenata alla gente "famosa per essere famosa", a quelli che voi chiamate Vips, ma sono solo "celebro-lesi". Su Internet, poi, i divi sono Montezemolo e Profumo, Corrado Passera e Marina Berlusconi, Masi e Pier Silvio, Tronchetti e Bernabè. Le mie rubriche più seguite sono la rassegna dei giornali (" la stampa, monnezza") e la "Penisola dei famosi", cioè il bollettino degli uomini di potere e dei poteri forti. Altro che l’Isola dei famosi: provate voi a prendervela con Geronzi, Della Valle o Montezemolo! Del resto, la mia chiusa retorica potrebbe essere: vale la pena di finire in tribunale per l’ultima sciacquetta di un reality show?».