Federico Fubini-Massimo Nava, Corriere della Sera 06/05/2010, 6 maggio 2010
MOISI: GLI ATTACCHI ALLE BANCHE? FIGLI DEL NUOVO POPULISMO
Non è da oggi che Dominique Moïsi riflette sulla lezione della Rivoluzione francese nell’era della globalizzazione. «Il populismo è la più probabile e forse inevitabile conseguenza della crisi economica e finanziaria internazionale», scriveva nei mesi scorsi, quando in Francia si occupavano le fabbriche e si sequestravano manager «colpevoli» dei licenziamenti. «La violenza di queste ore in Grecia’ dice’ è l’apice di fenomeni che si avvertono un po’ ovunque in Europa e in Occidente, anche se in forme e con intensità diverse. Imorti di Atene sono un incidente, ma l’assalto alle banche – consapevole e probabilmente programmato – è il segnale che la sfera dell’emozionale ha preso il sopravvento. Si agisce per rabbia e disperazione, mentre dilagano sfiducia nelle classi dirigenti e senso d’ingiustizia».
Professore ad Harvard, saggista, consigliere speciale dell’Istituto francese per le relazioni internazionali, Moïsi sostiene che il nostro tempo è segnato dallo «scontro delle emozioni». « ovvio che la Storia non si ripete allo stesso modo e che la riflessione sulla Rivoluzione francese è una provocazione, ma ricordiamoci che all’epoca della presa della Bastiglia non c’era la televisione che amplifica i fenomeni e innesca meccanismi d’imitazione. Le classi popolari sono pervase da un senso d’ingiustizia, alimentato anche da bonus e stipendi offensivi ai più alti livelli, e dalla paura delle riforme che sarebbero necessarie per riorganizzare le economie e le società. Si rischia di bloccare le riforme per fermare le violenze. una logica terribile: così ci si suicida per non morire!»
Che impressione le fa la notizia dell’attacco a un’istituzione finanziaria che lascia tre morti sul terreno?
«C’è una specificità greca, ma è anche un atto simbolico: durante la Rivoluzione francese si attaccavano i castelli dei principi, oggi si attaccano le banche. Il problema generale, che va oltre la Grecia, è che le opinioni pubbliche non credono più né ai mercati né agli Stati né all’Europa»
Che cosa potrebbe fare l’Europa in una fase così difficile?
«Trovare il modo di infondere calma nei mercati e fiducia nella gente. Purtroppo, l’Europa appare sempre in ritardo sugli avvenimenti. Quando viene presa una buona decisione, come ad esempio quella di organizzare un’agenzia di rating europea, spesso lo si fa dopo averne esaminate e scartate molte altre e sempre in una logica di emergenza».
Si teme un contagio della crisi greca ma alcuni Paesi, come la Germania, resistono meglio di altri.
« vero, le situazioni sono diverse. Ma è diffusa la sensazione che i centri decisionali non siano in grado di prendere le decisioni necessarie. L’Europa dimostra una crisi di leadership e di ambizioni. Bisogna agire con rapidità e sangue freddo, ma l’impresa è ardua, perché il senso d’ingiustizia e di rivolta sociale non sono più solo l’espressione di frange estremiste, anticapitaliste o "no global", ovvero di elementi e gruppi ideologizzati. un sentimento che attraversa strati popolari e ceti medi, anche moderati».
Come giudica la Germania di Angela Merkel in questa vicenda?
«La Germania parla il linguaggio della normalità. tornata a essere un Paese come gli altri, che si comporta oggi come si comportava ieri la Francia: ha visto che era rimasta la sola a difendere l’identità europea, mentre tutti gli altri difendevano l’interesse nazionale e si è chiesta perché dovrebbe continuare a farlo».
una critica alle scelte di Berlino sulla Grecia?
«Dal migliore allievo della classe ci si aspettava un comportamento più responsabile. Il problema è che Angela Merkel è un politico tedesco di un’altra generazione. La generazione che conoscevamo, quella dei leader tedeschi che avevano l’Europa come riferimento come Helmut Kohl e un po’ anche Gerhard Schröder, è scomparsa. Questa Germania si sente abbastanza normalizzata da non aver più bisogno dell’Europa».
Lei non sembra credere a un lieto fine in questa crisi.
«C’è un modo finanziario di non crederci. Il mio è un modo politico: ciò che è stato fatto, è arrivato troppo tardi, dunque è troppo duro e non è più accettabile dal pubblico».
Federico Fubini
Massimo Nava