Barbara Uglietti, LཿAvvenire 6/5/2010, 6 maggio 2010
GERUSALEMME EST, I MATTONI CHE DIVIDONO DUE POPOLI
Un appartamento di cento metri quadri – salone, cucina, due camere e un bagno – in un insediamento ebraico a Gerusalemme Est può costare circa 200mila dollari. Un terzo rispetto a Gerusalemme Ovest, o a Tel Aviv.
Sono case di buona qualità: palazzine di quattro-cinque piani tutte uguali, prodotto di un’edilizia veloce e modulare che parte dalle colline intorno alla Città Santa e scende giù. Gli edifici sono costruiti con la pietra chiara delle cave palestinesi intorno a Hebron e Betlemme (1.200 stabilimenti che impiegano 22mila persone); e con le braccia dei palestinesi: in 20mila arrivano qui tutte le mattine per tirare su questo ”muro” di case che chiude i loro villaggi in sacche isolate senza continuità. L’Anp sta pensando a una legge che proibisca ai palestinesi di lavorare nei cantieri israeliani. Per giunta insidiati dalla manovalanza cinese, sempre meno cara. Ma le necessità quotidiane di chi deve portare a casa qualcosa si scontrano con il sogno di uno Stato che si allontana sempre più. Mattone dopo mattone. Per palazzine come queste – a Ramat Sholomo, Har Homa, Ghilo ”, Israele sta affrontando le critiche della Comunità internazionale e soprattutto dell’Amministrazione americana. Il congelamento dei progetti a Gerusalemme Est e in Cisgiordania, fortemente richiesto da Obama, resta un’ipotesi. Esclusa a ripetizione dal governo Netanyahu. Il nodo è al centro dei colloqui indiretti mediati dagli americani: in questi giorni, per discuterne, è nella regione l’inviato della Casa Bianca, George Mitchell. Ma intanto le colline sono prese. E non c’è cima senza gru.
Gli insediamenti crescono e guai a chiamarli insediamenti. Per gli israeliani sono ”quartieri”. Quartieri di Gerusalemme capitale, unica e indivisibile. E pazienza se la comunità internazionale non la pensa allo stesso modo, considerando illegali la maggior parte delle colonie e non riconoscendo Gerusalemme come capitale di Israele, e nemmeno l’annessione di Gerusalemme Est.
I progetti vanno avanti. Case, scuole, shopping center. L’aspetto nel complesso resta sempre un po’ grezzo, desolato, da grande periferia popolare. Ma l’obiettivo è rendere tutto più mosso e vitale, secondo l’esempio brillante di Maale Adumim. Molti insediamenti sono ancora cantieri. Gli israeliani, potendo scegliere, non comprerebbero qui, ma ci vengono perché incoraggiati dai prezzi bassi delle case. La solidità della pietra non riesce a nascondere le difficoltà di queste aree problematiche vicino alle zone palestinesi. Ghilo, per esempio, ha ancora il suo ”piccolo” muro (diverso da quello tra Israele e la Cisgiordania) che la separa dal villaggio palestinese di Beit Jala (vicino a Betlemme). Beit Jala è praticamente divisa in due: a ovest gli israeliani, a est, palestinesi. L’entrata e l’uscita dell’insediamento non sono marcate: niente cancelli, nessun controllo. I ”confini” sono definiti, semmai, dalla qualità delle strade (perfette dalla parte israeliana, malmesse da quella palestinese), delle case (qui nuove, là malconce), dei negozi (qui moderni, là simili ai banchetti di un suk). la geografia dell’occupazione. I palestinesi rivendicano la proprietà dei terreni e delle case. Qui come altrove, a Gerusalemme Est e in Cisigordania. Ma chi-possiede-cosa è faccenda controversa, che si ingarbuglia tra due guerre: quella del 1948 e quella del 1967. Può capitare che sia israeliani che palestinesi possano avere documenti originali di proprietà, nei periodi diversi. O, più spesso, che i palestinesi, pur essendo proprietari, non abbiamo i documenti risalenti al periodo di controllo giordano. Così le loro terre vengono espropriate, le loro case abbattute e ricostruite per gli israeliani.
Tra gli insediamenti più problematici ci sono quelli di Har Homa (vicino a Betlemme) e Ramat Shlomo (l’insediamento al centro della crisi di marzo con gli Stati Uniti, quando venne annunciata la costruzione di 1.600 nuovi alloggi proprio durante la visita del vice-presidente Usa Joe Biden): sono stati costruiti per gli ultra- ortodossi che, paradossalmente, non condividono la politica di occupazione delle terre e sono fortemente antisionisti. La loro comunità scoppia ma vogliono vivere per i fatti loro, in comunità isolate, più omogenee. Come Beitar Illit, in Cisgiordania. Il sindaco di Gerusalemme, Nir Barkat ha i suoi problemi a gestire le loro rigidità (recentemente si sono discusse le questioni degli autobus che circolano al sabato e quella dei negozi kosher). Ma hanno un’utilità strategica, e l’offerta di case a Gerusalemme Est finisce per rispondere a un’esigenza.
Secondo i palestinesi, dietro le costruzioni nella parte araba della Città Santa non c’è una domanda naturale del mercato edilizio ma un preciso disegno del governo per rendere Gerusalemme sempre più israeliana (similmente a quello che accade in Cisgiordania, per tagliare la continuità delle terre palestinesi e rendere di fatto impossibile la nascita di un Stato). Entro il 2020 i palestinesi di Gerusalemme potrebbero superare gli israeliani e quindi eleggere il sindaco. Non c’è niente che spaventi di più il governo ebraico. Le autorità locali e statali non negano che ci sia una ’strategia edilizia’, ma sostengono sia un loro preciso diritto metterla in atto. Un diritto che affonda le radici nella storia. Mordechay Lewy, ambasciatore israeliano presso la Santa Sede ed ex consigliere del sindaco di Gerusalemme come esperto in questioni demografiche, sottolinea che la storia della Cisgiordanina «è attraversata dall’ondata di immigrazione di popolazioni seminomadi », soprattutto dall’area di Hebron. Spiega: «Erano attratti dalla città. E hanno costruito senza permesso, appartamenti a un piano, larghi, come era loro costume. Parallelamente, sotto l’amministrazione giordana, molti israeliani che pure prima avevano comperato le terre, non hanno potuto costruire. Solo adesso, sotto il controllo israeliano, possono rivendicare i loro diritti». Ora, spiega Lewy, i palestinesi lamentano di essere demograficamente schiacciati dagli israeliani, «ma le statistiche, che parlano della loro continua crescita, li smentiscono». E gli spazi disponibili sono pochi, sottolinea l’ambasciatore. Solo a Est e a Nord della Città Vecchia, «perché altrove ci sono aree protette o archeologiche ». Dichiarate tali dallo Stato. Ogni metro quadro finisce così per essere conteso. Ed è sulla base di un’unità di misura tradizionale piccola come il dunum (mille metri quadri) che Israele e Palestina, da mille anni, continuano a fare a pezzi la storia.
Barbara Uglietti, L’Avvenire 6/5/2010