Massimo Fini, il Fatto Quotidiano 6/5/2010;, 6 maggio 2010
RITRATTO DI UN PAESE SENZ’ANIMA - U
n paio di anni fa, aggirandomi sotto i portici di finto mattone di Milano Due, il quartiere costruito da Berlusconi a est della città, spinsi la porta a vetri di quello che mi sembrava un negozio e mi trovai in un locale che, lì per lì, non capii se fosse una cucina, una gelateria o una saletta di conferenze. Una trentina di sedie trasparenti, di plexiglas, erano allineate con ordine davanti a un tavolo. Nel corridoio, fra le sedie, c’era un carrello a tre piani, di quelli che, solitamente, si usano per servire i liquori. In un angolo delle pareti, bianche e disadorne, una credenza o qualcosa del genere. Non so da che cosa mi resi conto, forse da un crocefisso, che quella era una chiesa, la chiesa di Milano Due. Oggi quella cappella, che per una decina d’anni è servita ai bisogni spirituali degli abitanti di questo quartiere, è stata sostituita da una grande chiesa di cemento dalle linee avveniristiche e aggressive, ma la sensazione di straordinaria freddezza è identica. Dalle ampie e nude vetrate entra una luce cruda accentuata dalla bianchezza asettica delle pareti. Il pavimento di finti mattoni lascia il posto, vicino all’al - tare, a una moquette azzurrina. Tre confessionali affiancati, monoblocco, di legno chiarissimo, con le grate squadrate e a maglie molto larghe, ricordano i box per la sauna finlandese. Non mi pare di aver visto, da nessuna parte, un inginocchiatoio. Premo un pulsante. La porta si apre su un’ampia stanza arredata con mobili tipo ufficio. Un perfetto esemplare di manager mi viene incontro. un uomo alto e magro, in un completo grigio molto elegante, i capelli bianchi pettinati con cura all’indietro, i gesti misurati e precisi, l’attegg iamento freddo, gelido direi. don Ruggero, parroco di Milano Due. Se mi sono attardato a descrivere la chiesa di Milano Due non è per pura malignità o per spirito bozzettistico, ma perché dà un’immagine abbastanza esatta di questo quartiere, perfetto, razionale, freddo, pretenzioso, arrogante, senz’anima anche là dove l’anima dovrebbe essere di casa. Intendiamoci, è tutto a posto a Milano Due. Le case, a sei piani, più attico, sono belle, e solide, almeno all’apparenza. Il verde c’è, in abbondanza. E ci sono strade differenziate per le macchine, per i ciclisti, per i pedoni. Ma il tutto ha un che di artefatto, di finto, di terribilmente anonimo. Anche gli alberi, i pini, le betulle, i salici e i prati, senza un pelo fuori posto, razionali, prevedibili, han l’aria posticcia, nessuno si meraviglierebbe se scoprisse che son di plastica (e sarebbe quasi lo stesso perché, a parte i divieti, non viene certo voglia di ruzzarci dentro). I gruppi di caseggiati, che portano i nomi graziosi, di «Betulle», di «Spiga», di «Portici», di «Botteghe», son tutti uguali, squadrati, programmati, senza storia. Questo di essere completamente priva di storia è il primo grave guaio di Milano Due, città nata dal nulla e sul nulla. E questa mancanza di storia si riverbera su tutto, sui suoi abitanti, le sue case, le sue strade, i negozi, i bar. I negozi. Sono lussuosi ma freddi e hanno quell’aria provvisoria, oltre che di rapina, delle boutique dei villaggi-vacanze. E sono tutti di un certo tipo, monoculturali, come il quartiere, pelletterie, profumerie, boutique, gioiellerie, negozi di sci e di «computer game», parrucchieri per signora, per lo più deserti perché sono carissimi e la gente di qui, in genere, preferisce fare i suoi acquisti a Milano. Così i bar, che durante la settimana sono vuoti perché la gente lavora e il sabato e la domenica anche, perché fanno il weekend. « difficilissimo formare una clientela qui – mi dice Franco Mantovani, che ha un bar ai ”Por - tici”. Il passaggio non esiste. I clienti sono solo quelli che abitano qui che però, se mai hanno un rapporto con un bar, ce l’hanno con quello sotto al loro ufficio, a Milano, non certo qui». Ampi cartelli avvertono che «è vietato schiamazzare e produrre rumori che disturbino la quiete». Ma non ce n’è bisogno, il quartiere è silenzioso come un camposanto. Nella mattinata fredda vedo passare qualche donna impellicciata e di cuoio vestita che porta a spasso il cane o ritorna con i sacchi della spesa. Nel pomeriggio arriveranno i bambini. Tutto qui. Il fatto è che, sotto la maschera, anche Milano Due è un ghetto. Per ricchi, ma ghetto. Un quartiere dormitorio. Si dice che qui lavorino, negli uffici di alcune società legate al settore elettronico, Ibm in testa, e a Canale 5, più di tremila persone che vengono da Milano. Può darsi, ma la loro presenza non si avverte minimamente. Dal punto di vista della vita di quartiere è come se non esistessero. In quanto agli abitanti di Milano Due, non diversamente da quelli del Gratosoglio, lavorano tutti a Milano. E poiché hanno, in genere, professioni impegnative e stressanti, ricompaiono a Milano Due molto tardi, verso le otto e mezzo-le nove di sera. Anche una buona metà delle donne lavora. L’altra metà ha del tempo libero – perché i bambini possono essere mandati giù a giocare senza pericolo – ma si annoia mortalmente. Perché di questo tempo libero non sa che farsene. I negozi sono quelli che sono, quando li hai visti una volta li hai visti per sempre. E non c’è altro. Proprio come al Gratosoglio non c’è un cinema, un teatro, una discoteca, una pizzeria, una libreria, una biblioteca, un centro culturale. Ci sono, è vero, gli impianti sportivi, per cui Milano Due va famosa, però dipendono tutti dallo Sporting, un club privato la cui iscrizione costa 600 mila lire l’anno a testa e che non tutti se la sentono di pagare. Ma la mancanza di vita, di calore, di aggregazione sociale di Milano Due non è addebitabile, come per il Gratosoglio, unicamente alla carenza di infrastrutture. Sono gli abitanti che sono fatti così, a immagine e somiglianza del quartiere in cui vivono e che si sono liberamente scelti. Dice Franco Mantovani: ”Qui i rapporti sono molto formali, un ”ciao’ falso falso e buona notte al secchio. Diciamo che si salutano perché proprio non possono farne a meno. Gli uomini. Le donne, che sono poi quelle che nel quartiere ci vivono, si evitano accuratamente fra di loro, per invidia o per mille altri motivi”. (...) Sono ossessionati dal denaro. Proprio e altrui. Ho sentito parlare più di denaro qui a Milano Due, dove tutti dicono di averne, che al Gratosoglio dove non ce n’è. Lo «status symbol» e l’e mu l a z i o n e sono eletti a regole di vita. «La metà della gente va allo ”Spor ting” per - ché ci va l’altra metà, non perché gli piaccia giocare a tennis. E per farsi vedere con la racchetta giusta farebbero salti mortali», dice Franco Mantovani. (...)A Milano diciamo: ”Vuol far lo sciur ma non g’ha i danée” – afferma crudamente Gino Spada, direttore uscente dello ”Spor ting” – se metti un supplemento per il riscaldamento della palestra sono lamenti a non finire, ma se, allora, lasci le cose come sono, e la palestra è fredda, è la fine del mondo. Però vogliono mandare i figli alle private e avere la seconda macchina e la colf anche se la moglie sta a casa. Vivono angosciati da queste cose e sempre un po’ al limite delle loro possibilità. Così a ”Milano Due” quando scadono i mutui si compra la cicoria». la sagra del «voglio ma non posso». E la teoria del lamento. «Il lamento è il vero ”leit motiv” di ”Milano Due”» mi dice una graziosa impiegata dello «Sporting». Si lamentano perché hanno pagato, hanno «cacciato la lira » e il «prodotto», cioè Milano Due, non è così impeccabile come era stato garantito all’acquisto, un po’ come certi turisti di viaggi organizzati ed esotici ai quali nulla sembra mai pari alla cifra spesa e che a ogni minima «defaillance» dell’or ganizzazione montano su tutte le furie. (...) Anche Dio, qui, è considerato un servizio. Qualcosa che Milano Due deve dare perché è compresa nel prezzo. Del resto, se non ho capito male, anche il parroco è di quest’idea e redige puntigliose note spese di ogni extra. La «pietas» riesce a manifestarsi nel solo modo di cui sono capaci: col denaro. «Quando abbiamo fatto delle serate di beneficenza, allo Sporting, abbiamo sempre tirato su parecchi milioni» dice Spada. In un posto del genere la morte è messa al bando. Non che non si muoia, nonostante le autorevoli protezioni si muore anche a Milano Due. Ma la morte è ignorata, rimossa, scomunicata. Nessuno ha mai visto un funerale a Milano Due. Spiega Spada: «Prima, quando c’e ra la cappella, non veniva bene far tante cerimonie, si sarebbe dovuto andar su e giù per le scalinate e i ponti e quindi i funerali non si facevano. Ma neanche adesso, che c’è la chiesa, se ne fanno. morto, di recente, mio suocero e so come van le cose. Si porta la salma in chiesa in fretta e di nascosto. Il prete fa la sua funzione, bella però, con tutti i crismi. Poi si va direttamente al cimitero di Segrate senza corteo. Sa, qui non ci sono le strutture... la bara deve uscire da certe porticine laterali perché la chiesa non ha un’e n t ra t a centrale... un funerale sarebbe imbarazzante... eppoi il prete è il primo a non desiderare cortei per ”Mi - lano Due”». E forse è meglio così perché un funerale qui, fra i campi da tennis e la piscina, le stradine artificiali e il verde beneducato, i ponticelli e le lussuose residenze, avrebbe un che di surreale, di felliniano e, forse, di blasfemo. (...) Milano Due è il paradiso dei bambini. Dice la signora Sanjust: «Per i bambini ”Milano Due” è l’ideale. Ho due figlie di dieci e cinque anni e le posso mandar giù a giocare tutto il giorno senza pericoli. Eppoi stanno nel verde». Il che è vero. Ma questo aiuta anche i genitori a disinteressarsi dei figli. Dice don Roberto Camagni: «Qui è molto diffuso l’isti - tuto della delega nell’educazione dei figli, delega alla scuola, al prete, alle attrezzature sportive. Se la delega è gratuita, tanto meglio, sennò la si paga mandando i figli alle scuole private. Non so però, onestamente, se questa sia una caratteristica di ”Milano Due” o, piuttosto, a un certo livello sociale, dei genitori italiani d’oggi». (...) Mentre mi avvio verso la macchina lasciata chissà dove in questo labirinto di case e di stradine tutte uguali, incrocio un bambino di otto o nove anni, con l’immancabile racchettina, al quale chiedo un’indicazione. «Dopo il sesto ponte a destra e poi al caseggiato numero nove della ”Spiga” anco - ra a sinistra» mi risponde gentilmente. «Ti piace vivere qui?» chiedo. «Sì.» «Perché?» «C’è tanto verde. Tanto verde», risponde compunto, con l’aria di chi ha imparato bene la lezione, e si allontana, tristissimo. Il Giorno, 15 gennaio 1983 (Copyright Chiarelettere)