MAURIZIO MOLINARI, La Stampa 5/5/2010, pagina 1, 5 maggio 2010
LA RABBIA ISLAMISTA DI FAISAL
Finestre con le bandiere cubane al posto dei vetri mancanti, spazzatura rovesciata, in strada contenitori in metallo per raccogliere abiti usati, un «deli» che vende carte telefoniche e un cartellone che invita ad arruolarsi nel corpo dei Marines.
Questa è Sheridan Street, la strada dove il trentenne jihadista pachistano Faisal Shahzad viveva nella casa biancastra di due piani al numero 202-204 in un quartiere senza nome, costruito trenta anni fa per ospitare gli operai di una fabbrica della General Electric oramai chiusa e adesso abitato da immigrati ispanici, orientali e caraibici «che in comune fra loro hanno il fatto di essere poveri e vandalici» come dice la quarantenne Linda, titolare di un negozio su Boston Avenue che vende a prezzi stracciati moquette di seconda mano.
Per avere un’idea di cosa intende per «vandalici» basta aspettare le 13, quando escono dal liceo Warren i figli dei resistenti di Sheridan Street e dintorni: la polizia schiera pattuglie a cavallo per intimorirli e scongiurare il rischio quotidiano di risse in strada, che finiscono spesso per invadere case e piccoli negozi. Ma per Shahzad questo quartiere povero immerso nella ricchezza del Connecticut era il punto di arrivo dell’integrazione in America: è qui che aveva scelto di vivere nel febbraio dello scorso anno prendendo un mutuo di 65 mila dollari dalla banca Wachovia per essere titolare della casa dove dal 17 aprile 2009 risiedeva come cittadino statunitense a tutti gli effetti dopo aver giurato fedeltà alla bandiera nelle mani del giudice locale Holly Fitzsimmons.
L’arrivo in Connecticut risale al 2000 per studiare nell’ateneo di Bridgeport che poi abbandona per ritornarvi e prendere il Master nel 2005, diventando anche uno dei protagonisti della «graduation» perché quando venne chiamato sul palco per ritirare il diploma il padre, arrivato con la moglie appositamente dal Pakistan, si fece notare gridando ad alta voce un «That’s him!» ( lui!) in maniera assai poco anglosassone. La corsa verso l’integrazione in America sembrava essere il suo unico intento e i molteplici cambi di residenza negli ultimi cinque anni suggeriscono il desiderio di andare sempre in un posto migliore dell’altro. Esponendosi anche a un indebitamento crescente, come dimostra il fatto che nel 2004 aveva comprato una prima casa a Long Hill Avenue, nel quartiere operaio di Shelton, assumendosi l’onere di quasi 220 mila dollari, da Chase Bank che ancora doveva restituire.
Perché il pachistano abbia deciso di avere due case è uno degli interrogativi a cui gli investigatori tentano di rispondere. Comunque, a sentire i racconti dei vicini di casa lungo Sheridan Street, il trentenne musulmano dal look occidentale si faceva vedere assai poco. «Era molto appartato, viveva chiuso in casa», dice Brenda Thurman, che racconta di aver saputo che il pachistano «aveva moglie e due figli» ma di essere stata sempre incerta su cosa faceva perché «ad alcuni raccontava che lavorava a Wall Street e ad altri che invece era impiegato all’aeroporto di Newark». In un quartiere di immigrati dove le donne sono in gran parte cameriere e gli uomini operai edili con contratti giornalieri, silenzi e stranezze di Shahzad non colpivano più di tanto. Ciò che invece si notò fu la sua totale scomparsa, da un giorno all’altro, quando si recò per lunghi mesi in Pakistan. «Nessuno sapeva bene dove fosse finito», dice Brenda Thurman, ammettendo di essere tornata a sentire il suo nome solo quando le macchine della polizia e i camion delle maggiori tv hanno invaso Sheridan Street all’alba di ieri.
La parabola del giovane pachistano che prima sceglie l’America e poi la vuole colpire a morte ricorda da vicino la storia di Najibullah Zazi, l’afghano residente in un anonimo sobborgo di Denver in Colorado, arrestato per aver pianificato di attaccare nel settembre del 2009 la metro di New York con armi di distruzione di massa, come anche il maggiore Nidal Malik Hasan, cresciuto in Virginia in una famiglia della classe media di origine giordano-palestinese, per poi decidere di fare strage di commilitoni nella base texana di Fort Hood il 5 novembre del 2005 su ordine di un imam del New Mexico fuggito in Yemen. Sono storie parallele della Jihad a stelle e strisce che venne prevista da Steven Emerson nel documentario «Terrorist Among Us» nel ”94 - l’anno dopo il primo attacco alle Torri Gemelle - descrivendo quella che si sta dimostrando come la maggiore minaccia alla sicurezza dell’America di Obama.