Antonio Polito, Il Riformista 4/5/2010, 4 maggio 2010
ONORE AL LABOUR
Era di maggio anche allora. Era il primo maggio del 1997 quando Tony Blair vinse le sue prime elezioni e divenne - il giorno dopo - primo ministro. Ed era il sei maggio del 1953 quando Tony Blair nacque, in quel di Edimburgo. Il prossimo sei maggio, cioè tra due giorni, il golden boy della politica europea festeggerà dunque il suo compleanno insieme a quella che tutto lascia credere sarà la data di morte del suo New Labour, uno degli esperimenti politici di maggior successo della storia della sinistra europea.
Comunque finisca giovedì, l’addio al governo della sinistra britannica sembra infatti una conclusione già scritta. Sia che Cameron riesca a ridare ai Tories, al quarto tentativo, una maggioranza di seggi che gli consenta di governare da solo; sia che non ci riesca e debba provare a condividere il potere in un governo di coalizione con i Liberal-democratici. Sia che Nick Clegg riesca ad arrivare secondo relegando i laburisti al terzo posto, come non succedeva loro da un secolo esatto; sia che non ci riesca e Brown possa dichiararsi onorevolmente battuto conservando il secondo posto.
Per questo giornale, e per me personalmente, col New Labour finisce qualcosa di più di un esperimento politico: finisce un pezzo di vita, una passione, una militanza. Noi ci avevamo creduto, fino dal primo giorno. Da quel mattino pieno di sole in cui Londra si commosse per la valanga di voti che portava un simpatico ragazzo e la sua famiglia giovane e numerosa al numero 10 di Downing Street, chiudendo una stagione di destra della quale gli inglesi non ne potevano davvero più. In quei giorni, a Londra, per milioni di persone, la festa per la fine dei diciotto anni di conservatorismo thatcheriano non fu meno entusiasta di quanto lo sarebbe per molti italiani la caduta del conservatorismo berlusconiano. E questo anche indipendentemente dagli orientamenti politici. Diciotto anni - tanto era durato il dominio Tory - sono troppi per chiunque. Arriva un momento in cui la gente finisce per attribuire al cambio di governo anche il valore palingenetico di un cambio di vita, di atmosfera, di clima. Così fu, il giorno in cui Blair andò al governo. Una ventata di gioventù, e di voglia di vivere, di cambiarsi d’abito, di vestire e mangiare all’europea, dopo l’apologia delle «zitelle in bicicletta e delle birre calde» dell’ultimo Major. Nei primi anni di Blair, l’Inghilterra cambiò molto più di quanto Blair fosse in grado di cambiarla. Chi, come me, visse in quella metropoli in quegli anni vide trasformarsi sotto i propri occhi una città grigia e triste, dove alle nove di sera non si trovava più un ristorante aperto, nel posto più «cool» del mondo (cosa che tra l’altro ancora è, e resterà anche senza i laburisti al governo).
Questo per dire che è la gente a cambiare un paese, non i governi. Ma i governi possono aiutare, se cavalcano l’onda emotiva giusta e fanno meno errori possibili. Da questo punto di vista, onore al New Labour, anche nella settimana della sua (non prematura) scomparsa. Perché il bilancio di tredici anni di governo, una durata senza precedenti per la sinistra inglese, è un bilancio positivo, anche se in gran parte dimenticato.
Guardiamo un po’ a caso nell’agenda di questi anni. Vi troveremo svolte storiche. Voi ricordate che nel Regno Unito c’erano centinaia di parlamentari a vita, che erano tali per nascita e sangue, e alla cui morte sarebbero subentrati i figli? Questa era la Camera dei Lord: un ramo del parlamento non elettivo, un club per aristocratici. Con una piccola eccezione destinata ad estinguersi con la morte dei titolari, i Lord non esistono più. Oppure ricordate che nel Regno Unito il tasso di sconto era fissato dal governo con motivazioni politiche e non dalla Banca Centrale? Sembra incredibile, ma così era, e questa fu la prima riforma del governo Blair, appena andato al potere. Oppure ricordate che in Irlanda del Nord c’era la guerra civile, e che le bombe dell’Ira esplodevano e facevano strage in Irlanda come in Inghilterra? Ora in Ulster c’è la pace, e un governo comune tra protestanti e cattolici. Così come Scozia e Galles hanno i loro parlamenti, ottenuti in un processo di devolution del potere centrale che ha a lungo ispirato anche i ben più timidi progetti di federalismo della Lega di Bossi.
Potrei continuare. Soprattutto potrei dire che lo sforzo per una maggiore giustizia sociale (non uguaglianza, perché questa parola socialista il New Labour si è sempre rifiutato di pronunciarla) è stato ben superiore a quanto generalmente si creda e si dica a proposito di Blair, accusato di essere stato nient’altro che una Thatcher in pantaloni. Dal salario minimo, al sistema di sconti fiscali e benefit per le famiglie in cui lavorano entrambi i genitori, agli interventi per i pensionati poveri e i bambini poveri. Il Labour finirà la sua era di governo lasciando sì una società leggermente più ineguale di quando andò al potere. Ma è opinione di tutti gli esperti che il terremoto sociale di questi tredici anni avrebbe accresciuto grandemente quell’ineguaglianza, con la destra al governo.
Di più: il Labour ha pompato nel sistema dei servizi sociali, croce e delizia del popolo britannico, una quantità di risorse mai viste prima. In termini reali, i finanziamenti pubblici alla sanità si sono raddoppiati in questo periodo. L’obiettivo di salvare la gloriosa NHS (il servizio sanitario nazionale) dalle condizioni comatose in cui era, è riuscito. Lo stesso è avvenuto nel sistema scolastico. Ma dire che l’enormità dell’investimento abbia prodotto anche una riforma radicale e un miglioramento sostanziale dell’efficacia del sistema pubblico, questo no, non si può dire. Ed è questa la colpa più grave che il Labour si lascia alle spalle: non di essere stato poco di sinistra, ma di essere stato poco riformista, di aver cambiato meno di quanto aveva promesso.
Non è un caso se oggi la Gran Bretagna ha un rapporto deficit-Pil all’11,6%, non molto distante dal dato greco. Gli anni dell’abbondanza sono stati costruiti sullle performance della new economy, su quella fantastica cavalcata dell’economia fondata sulla finanza che sembrava senza fine (nel decennio di Blair il prodotto interno è cresciuto a una media di quasi il tre per cento annuo), e che sembrava annunciare la fine dei cicli economici: mai più boom seguiti da recessione, ma solo un lungo infinito boom. E invece i boom sono finiti, la recessione alla fine è arrivata, dura e amara come lo è sempre in un’economia liberale e anglosassone, e per questo - io la penso come i sondaggi - la sinistra inglese perderà le elezioni questa settimana.
Ma la ragione per cui a tanti soldi pubblici spesi per i servizi pubblici non è corrisposto un netto miglioramento dei servizi al pubblico sta proprio nella timidezza che a un certo punto ha preso il New Labour, ricacciandolo verso le sirene dello statalismo. Più Blair spingeva per trasformazioni radicali - per esempio portare i privati nella sanità e nelle scuole - più Brown resisteva, nella sua ostinata lotta per la successione a Blair, che alla fine ha avuto anche se molto probabilmente non potrà godersela a lungo. Gli anni del New Labour sono stati un infinito braccio di ferro tra i due ex amici, un braccio di ferro di fronte al quale quello tra D’Alema e Veltroni sembra uno scherzo da ragazzi. Una lotta che ha sfinito il partito, che ha creato generazioni di yes men, di personale politico addestrato solo al colpo basso e alla manovra contro l’avversario del proprio capo. Ma soprattutto questa lotta intestina si è pian piano tradotta in una paralisi dei grandi progetti riformisti del primo Blair, e che curiosamente oggi è Cameron a resuscitare e a riportare in auge, soprattutto nel campo del welfare.
Ci sarà occasione, prima di giovedì, di parlare dell’affaire Iraq, che il suo peso l’ha avuto nel picconare il piedistallo su cui Blair regnava indisturbato. Ma la politica estera è stata solo l’innesco di una rottura tra il New Labour e il paese che da tempo procedeva strisciante nel sottosuolo della società inglese. Certo è che con l’uscita di scena dei laburisti la sinistra europea resta orfana. E non è che ad Atene o a Madrid le vada meglio. stata una crisi del capitalismo a produrre questa crisi della sinistra europea, così come era stato il trionfo del capitalismo a portarla al governo e a darle per anni la chiave della crescita economica. Oggi la sinistra europea agisce in un deserto di idee e identità, proprio a causa di quella crisi. L’opera di ricostruzione sarà necessariamente lunga, in Gran Bretagna come in Italia. Ma dovrà pur sempre partire dall’analisi e dalla comprensione delle nuove forme che assumerà lo sviluppo capitalistico dopo la crisi finanziaria del 2008, e dovrà pur sempre rendere la sinistra capace di governare quello sviluppo. Rendiamo quindi onore al Labour, caduto dopo una lunga e gloriosa battaglia. Prima o poi l’albero della sinistra rigermoglierà. E quando lo farà, porterà sicuramente nella sua linfa il Dna della rosa laburista, oggi appassita.