Varie, 5 maggio 2010
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SHAHZAD Faisal (Pakistan) 30 giugno 1979. Analista finanziario, cittadino Usa, il 1° maggio 2010 alle 18
SHAHZAD Faisal (Pakistan) 30 giugno 1979. Analista finanziario, cittadino Usa, il 1° maggio 2010 alle 18.30 parcheggiò all’angolo tra la 45esima strada e Broadway (New York) una Nissan Pathfinder con bombolette di gas, taniche di benzina e fuochi d’artificio pronti a detonare. Il 3 maggio 2010 fu arrestato al Jfk quando già si era imbarcato sul volo Emirates 202, prima destinazione Dubai, coincidenza per il Pakistan • «[...] ”voleva una strage a New York perchè è il simbolo dell’America nel mondo intero”, dice il capo della polizia Raymond Kelly [...] lui confessa subito, almeno una parte della storia: sì, è l’uomo della Nissan Pathfinder[...] stata proprio l’auto a tradirlo. Grazie alla segnalazione degli ambulanti di Times Square, al rapido intervento degli artificieri, gli esplosivi furono neutralizzati lasciando il Suv quasi intatto. Con impronte digitali, chiavi, codice di matricola. quest´ultimo che consente di risalire all’ultima proprietaria, una donna del Connecticut, lo Stato dove Shahzad viveva con la famiglia. Il Nissan l’aveva comprato [...] rispondendo a un annuncio su Internet. Aveva tirato sul prezzo, da 1.800 a 1.300 dollari. Aveva usato un cellulare, poi gettato via ma prezioso per le ”tracce elettroniche” dei suoi spostamenti. Nella scia d’indizi c’è un’altra auto: la Isuzu Trooper posteggiata all’aeroporto Jfk. Niente esplosivi, ma una pistola nel cruscotto. L’ultima traccia del suo passaggio prima dell’arresto, ”a sole 53 ore da Times Square”, sottolinea orgoglioso Kelly [...] fece un viaggio a Karachi, dall’aprile all’agosto 2009. La polizia pachistana sembra avere ricostruito un viaggio di Shazhad anche a Peshawar, la città al confine dell’Afghanistan, nota come una roccaforte del fondamentalismo. Ma perché da allora Shazhad, tornato negli Stati Uniti, ha mantenuto tanta libertà di movimento? Perché ha potuto agire indisturbato fino alla tentata strage [...]?» (Federico Rampini, ”la Repubblica” 5/5/2010) • « il ”Risoluto” che ha perduto la propria risolutezza nel momento supremo del martirio. Forse è stato un bambino, suo figlio[...] e non il venditore di magliette a Times Square o le solite, miopi super agenzie di sicurezza americane, a impedire la strage a Broadway. Almeno vogliamo credere che sia stato il pensiero di quel neonato e della sorellina, il desiderio di rivederli in questo mondo, a impedire che Faisal Shahzad scegliesse di immolarsi nell’autobomba e dunque di farla esplodere con certezza, invece di affidarla a precari marchingegni, mentre lui scappava. Era un ”buon padre di famiglia”, un ”uomo tranquillo un po’ scontroso”, raccontano naturalmente ora i vicini che non si accorgono mai di niente. Se fosse vero, la sola spiegazione del fallimento dell’attacco è che Faisal [...] aveva voglia di uccidere, ma non aveva nessuna voglia di morire. Agiva per fanatismo, per vendetta contro i demoni yankee che bombardano i villaggi pachistani e polverizzano i buoni insieme con i cattivi, magari per la rabbia di avere visto la casa nel Connecticut, il proprio pezzo di sogno americano, pignorata dalla Chase Bank per morosità nel mutuo di 200 mila dollari? Ancora non sappiamo. Ma il sorriso orgoglioso e tenero di quell’uomo, di quel padre, accanto alla moglie e al primogenito in cuffietta bianca, è una piccola finestra illuminata e aperta sopra un’anima buia. A che cosa può avere pensato, Faisal, nelle tre ore di viaggio alla guida del Nissan esplosivo, fra Bridgeport e Manhattan, se non a quei bambini? Faisal, il giovane che comperò su Internet, attraverso il bazar online della Craiglist, lo scalcagnato Suv Pathfinder del 1993 (’condizione buone, un po’ di ruggine” confessava il venditore) per 1.300 dollari in contanti, è uno dei sei milioni di musulmani che vivono negli Stati Uniti, cittadini per nascita o per ”naturalizzazione” come lui, dal 17 aprile del 2009. La sua storia, di studente arrivato da Peshawar, la città crogiolo di ogni bellicosità tribale e furia religiosa, sembra esemplare dei processi di integrazione legale che pure possono fallire. Faisal era sbarcato nel 1998, con un visto da studente per una oscura università di Washington, la Southeastern. Si era laureato in ingegneria informatica e poi nel Connecticut aveva preso un master in Economia, che gli aveva dato un lavoro a Wall Street. Poi il matrimonio, una moglie grazie alla quale aveva avuto la via aperta alla cittadinanza. Storia banale e angosciosa dalla felicità ”made in Usa” che diventa odio assassino. Nei primi anni del decennio, quando le banche inseguivano i clienti, si era permesso una casa modesta, di legno, plastica e stecchini, una frame house, nei quartieri multietnici di Bridgeport, anonima metropoli del Connecticut che gravita nell’orbita di New York. Huma Mian, la moglie, prontamente gli aveva dato un figlio maschio e una femmina. Ai vicini raccontava di lavorare a Wall Street. Salutava, rispondeva ai cenni, aveva l’abitudine di fare molto jogging, sempre di notte e sempre in una tuta nera, un’ombra nell’ombra. Ma quando gli furono fatti gli esami per la cittadinanza, i blandi test di storia americana, di educazione civica, di inglese, mentre l’Agenzia per sicurezza nazionale finge di controllare, la vita e il passato dei candidati, niente di strano era emerso. Nessun affiliazione con organizzazioni o partiti anti-americani, nessun desiderio di abbattere il governo, aveva scritto nei formulari sui quali tanti comunque mentono. Eppure qualche campanello d’allarme era squillato, se lo si fosse voluto ascoltare. Huma e i due bambini piccoli [...] erano stati rispediti in Pakistan [...] Lui, Faisal, aveva perduto il lavoro a Wall Street e aveva smesso di pagare le rate del mutuo, la sua casa messa all’asta. Con fondi non chiari aveva comperato biglietti aerei di sola andata per la famiglia verso il Pakistan sugli aerei della Emirates, la compagnia del Dubai, non una linea low cost. Lui stesso [...] subito dopo avere acquisito il passaporto blu americano, era andato per un mese e poi per altri cinque a fine anno, in Pakistan, dove [...] l’Isi, il controspionaggio pachistano, lo ha associato ad almeno cinque membri di cellule terroristiche, in campi di addestramento violenti quanto incompetenti, visto il risultato. E quel suo ultimo viaggio col fiatone verso la moglie, i figli, la casa dei padri in Pakistan prima di venire acciuffato era stato acquistato online, su Internet, con un biglietto di sola andata. Cinquantatrè ore di corsa, fra il parcheggio a Times Square e l’arresto sul 777 della Emirates che aveva già chiuso i portelli e rullava verso il decollo. Faisal il ”Risoluto” era la prima talpa Taliban - e non di Al Qaeda - fra altre talpe che sonnecchiano aspettando? Era un convertito post-11 settembre? Un precario aspirante della jihad, come il ragazzo nigeriano sorpreso a ustionarsi i testicoli con esplosivi nelle mutande? Un americano per scelta, ma pachistano nello spirito, disgustato dal contatto con la ”empietà materialista e relativista” della società occidentale, come avvenne all’ufficiale dell’esercito, il maggiore Nidal, che uccise 13 sui compagni? [...]» (Vittorio Zucconi, ”la Repubblica” 5/5/2010).