Alfonso Berardinelli, Corriere della Sera 04/05/2010, 4 maggio 2010
LA CRITICA LIBERA E’ QUELLA «INUTILE»
Questa discussione sui rapporti attuali fra critica e letteratura si è aperta con i nomi di Adorno e Benjamin e con l’idea che chi ne è stato influenzato negli anni Sessanta non sarebbe in grado di capire il presente. Questo può valere per Benjamin (morto nel 1940) e per il suo messianismo rivoluzionario, ma non vale per Adorno (morto nel 1969), che ha conosciuto e analizzato l’american way of life, l’industria culturale, il fallimento marxista nel rapporto fra teoria e prassi e le degenerazioni del comunismo. Ma impostata in questi termini la discussione non sta in piedi. Se Benjamin ha tuttora i suoi devoti, che merita più come critico letterario che come filosofo politico, Adorno negli anni Sessanta, salvo eccezioni (Fortini, Cases, Calasso, Bellocchio), è stato pochissimo letto e subito scavalcato: sia a sinistra, dagli intellettuali militanti e d’avanguardia, sia a destra, dagli heideggeriani, dai mistici e dai mitologi. Ma è difficile negare che l’analisi dell’industria culturale compiuta da lui e Horkheimer (magari con la correzione sostanziale di Enzensberger, che la definì «industria della coscienza») è un’analisi non superata: di industria culturale non si parla più non perché sia sparita, ma perché è dovunque, tutti ne sono modellati e si può dire che non c’è altro: l’alta cultura, con Umberto Eco, è diventata bassa.
Eco in quanto scrittore di bestseller enciclopedici non ha avuto veri seguaci in Italia, ma in quanto demiurgo intellettuale può essere considerato il presupposto, il «motore immobile», il dio-padre della nuova cultura letteraria. In un interessante dialogo con Calasso, pubblicato qualche anno fa su «la Repubblica», Eco disse mirabilmente la cosa vera: riconobbe che non era interessato alla contrapposizione (idealistica, donchisciottesca) tra vero e falso, ma che semplicemente gli piaceva il falso perché falso (e il kitsch perché umiliava e sbaragliava le pretese aristocratiche dell’alta cultura). Si trattava di realismo: e lo scrittore di successo è un realista sociologico, soprattutto quando racconta il tipo di favole che il grande pubblico vuole.
Per quanto mi riguarda, è da più di trent’anni che Benjamin e Adorno non sono la mia stella polare: meglio Karl Kraus, Orwell, Auden e come critici letterari Edmund Wilson ed Erich Auerbach, che del resto ho sempre letto. Alla teoria socio-utopistica e alla teologia della rivoluzione, oggi inservibili, preferisco un diverso empirismo, la satira culturale, l’osservazione dal vero e quella specie di radicalismo anarco-liberale che nei fatti di cultura non sopporta la retorica democratica del «vogliamo tutto» e «siamo tutti creativi».
La critica letteraria deperisce facilmente se non è critica della cultura. Per questo credo che non si possa dimenticare la vecchia massima di Kraus secondo cui: «Esistono due specie di scrittori, quelli che lo sono e quelli che non lo sono»; sta al critico non solo distinguere tra le due specie (critici inclusi), ma anche spiegare nei diversi casi come e perché la distinzione, oltre che possibile, è reale.
Ma oltre che critica della cultura, delle idee, dei linguaggi e delle istituzioni sociali, la critica è un’impresa letteraria individuale. Per essere praticata richiede un certo grado di ispirazione (amore e odio, ammirazione e aggressività) e una serie di carte da giocare (i propri autori preferiti). Vista in questi termini la questione, credo che il crollo della teoria della letteratura sia più un bene che un male. La teoria anni Sessanta-Settanta pretendeva di definire in essenza, in linea di principio che cos’è la letteratura da Omero a Zanzotto e di prescrivere anche che cosa deve fare lo scrittore per essere davvero moderno. Questa soluzione solenne di tutti i problemi sembrava fatta apposta per fare a meno dell’attività critica e per risparmiare le fatiche richieste dall’esame dei casi singoli.
Infine, la critica è impotente, deve esserlo, guai se si illude di cambiare le cose. La sua libertà di giudizio è complementare alla sua inefficacia pratica. Il celebrato bestseller deve restare in vetta alle classifiche, ma sarà bene che qualcuno possa dire che è spazzatura, anche se dirlo è inutile. 
Ho l’impressione che oggi in Italia narrativa e poesia non siano più un oggetto interessante per esercitare la critica. Se escono tre romanzi al giorno e quasi altrettanti libri di versi, la partita è persa in partenza. Il recensore che provasse a esaminare sistematicamente una tale materia sarebbe spinto al suicidio. Ogni tanto potrà trovare un libro che lo attira. Ma si tratterà comunque di scelte discutibili, più suggestive che autorevoli. La saggistica mi sembra un genere letterario più interessante. Provare a discutere la qualità di un libro di Calasso e Magris lo trovo più proficuo che misurarsi con Tabucchi o Celati. significativo che il nostro Novecento si sia chiuso con tre scrittori che hanno portato la narrativa dentro la saggistica: Garboli, La Capria e Piergiorgio Bellocchio con Dalla parte del torto e Al di sotto della mischia. Chi non ha letto o ha dimenticato i loro libri rischia di non capire quali eredità ci ha lasciato l’ultimo secolo e a che punto siamo. In loro, letteratura e critica sono una cosa sola.
Alfonso Berardinelli