Giovanni Belardelli, Corriere della Sera 04/05/2010, 4 maggio 2010
I POLITICI E LE AUTO BLU: A PROPOSITO DI DOVERI
La norma approvata da una commissione del Senato (ne dava ieri notizia il Corriere) relativa a una patente speciale per gli autisti dei politici, che verrebbero così protetti dalla perdita dei punti in caso di infrazione, fa venire in mente quel che invece poteva accadere, nel 1922, a uno studente liceale romano figlio di un ministro (il ministro era il liberal-democratico Giovanni Amendola, che ricopriva il dicastero delle Colonie nel ministero Facta; lo studente il figlio Giorgio, futuro dirigente comunista).
«Avendo io un giorno atteso sul portone di casa – così Giorgio Amendola scriveva nel suo libro di memorie "Una scelta di vita" – che egli scendesse, per ottenere un passaggio sull’automobile ministeriale fino a piazza Colonna (il ministero delle Colonie occupava allora Palazzo Chigi), egli me lo rifiutò bruscamente, dicendo che le automobili dello Stato non dovevano servire alle famiglie dei ministri». Poche cose come questo episodio, davvero minimo, di un ministro che rifiuta un passaggio al figlio che pure deve andare proprio dove sta andando lui (ricordo, per chi non lo avesse presente, che Palazzo Chigi è a piazza Colonna) ci dicono la distanza siderale tra l’Italia di oggi e quella di neppure un secolo fa. Naturalmente poche cose, anche, sarebbero sbagliate come il troppo facile confronto tra i privilegi della «casta» di oggi e la rigorosa sobrietà dei politici di allora (Giovanni Amendola, racconta sempre il figlio, diventato ministro aveva visto dimezzarsi il proprio reddito mensile: dalle 4.000 lire percepite come corrispondente da Roma, fino al 1920, del Corriere della Sera, alle 2.000 che riceveva appunto come ministro). Sarebbe, ripeto, un confronto superficiale perché l’Italia di allora era diversissima dalla nostra: se una gran parte della classe politica condivideva quel rigore e quel senso dello Stato esemplificati dal mancato passaggio del ministro Amendola al figlio, per molti italiani’ a cominciare dai seguaci di un socialismo che aveva all’epoca una prevalente impronta «massimalista» – lo Stato era «borghese» e dunque doveva essere distrutto con la violenza. Quanto alla classe dirigente liberale, tutto il suo senso dello Stato non le impedì’ con poche eccezioni (tra le quali va collocato, dopo un’iniziale esitazione, proprio Giovanni Amendola)’ di contrastare troppo debolmente l’avanzata fascista. Ma detto tutto questo, non si può non aggiungere che la legge sulla patente privilegiata, o come vogliamo chiamarla, appare davvero surreale. E questo anche nell’ipotesi, che è stata affacciata dopo l’articolo del Corsera, di dare agli autisti non l’esenzione dalla perdita dei punti ma una seconda patente di servizio. L’interrogativo, infatti, sul perché l’auto di un ministro, di un sindaco, di un presidente di Regione non debba rispettare le norme del Codice della strada, che dovrebbero servire alla maggior sicurezza di tutti, resta infatti immutato. Più che per il suo contenuto, la nuova norma appare surreale per il significato simbolico che verrebbe comunque ad avere nel confermare l’immagine del mondo della politica come mondo del privilegio. Stupisce insomma l’assoluto disinteresse che la legge mostra nei confronti del discredito e della disaffezione di cui la nostra politica già soffre da tempo; un discredito e una disaffezione che certo la nuova patente speciale non contribuirebbe a ridurre.
Giovanni Belardelli