Sergio Luciano, ItaliaOggi 4/5/2010, 4 maggio 2010
IL BLUFF DELLE AGENZIE DI RATING
Grandina forte sulle agenzie di rating. A controllare i controllori si scopre che a volte dormono, e a volte al contrario sono ipersensibili, anche per far dimenticare le tante, troppe volte in cui hanno dormito! La Banca Centrale Europea, nel caso-Grecia, ha deciso ieri di sospendere il requisito di un ”rating minimo” di BBB- per i titoli accettati come garanzie collaterali nelle operazioni di rifinanziamento del debito sovrano di Atene. Come dire: grazie Moody’s. grazie Standard and Poor’s, grazie Fitch, ma le vostre valutazioni non ci interessano più.
Come se non bastasse questo ”uppercut”, a mollare un’altra sventola alle agenzie di rating e alla loro credibilità è stata anche la severissima Angela Merkel. La Cancelliera tedesca ha detto che creare un’agenzia di rating europea ”potrebbe essere utile”, quasi a sottolineare che delle tre major anglo-americane non c’è da fidarsi. E il ministro dell’economia francese, Christine Lagarde, le ha fatto eco preannunciando che darà più poteri all’autorità di mercato francese (Amf) per esercitare un controllo sulle agenzie di rating. Qualche giorno fa, del resto, anche l’italiano Lorenzo Bini Smaghi, consigliere Bce, aveva sparato a zero sulla trimurti dei voti agli Stati e alle imprese, dicendo addirittura di considerare «al limite della pratica etica» quanto fatto dalle agenzie di rating, bocciando ”senza conoscerlo” (in realtà, l’aveva fatto la sola Standard and Poor’s) il programma di misure fiscali e strutturali adottato dalla Grecia per ottenere gli aiuti degli Stati dell’eurozona e del Fondo monetario
Ma cos’è successo, di così grave e di così nuovo, a parte l’improvvida uscita sulla Grecia? Cos’hanno fatto, o non fatto, le tre agenzie?
Niente, in realtà: niente di nuovo, cioè. Premesso che le agenzie di rating sono un triopolio globale di fatto chiuso a qualunque minaccia concorrenziale, va detto che negli ultimi dieci anni si sono prodotte in una serie clamorosa di topiche che avrebbero demolito una fortezza.
Basti pensare al caso clamoroso della Lehman Brothers, che pochi giorni prima di dichiarare fallimento sfoggiava ancora una bellissima tripla A su molte delle sue emissioni, tanto che tutti i network internazionali di investimento (compreso l’italiano Consorzio Patti Chiari che addirittura omise di apportare subito dopo il crac la necessarie correzione ai propri documenti) fidandosi dei rating avevano continuare a prendere sul serio l’idea che la Lehman fosse solida.
Ma c’era stata anche la crisi delle ”tigri asiatiche”, che i tre big del rating avevano ignorato; e la ”bolla” della new economy, che avevano bellamente mancato di prevedere... e il default dell’Argentina, e via e via, in base a un principio non detto ma lampante, e consolidato.
Se il soggetto da valutare è un potere forte, e finchè lo è, lo si tratta con i guanti gialli; se è un pesce piccolo, oppure se è forte ma è inciampato ed è caduto in ginocchio, allora dagli addosso.
Questo scetticismo delle istituzioni finanziarie e bancarie internazionali contro le agenzie di rating è quindi addirittura tardivo. Ed è anche gravemente contraddittorio: basti pensare che non più tardi che alla fine del 2007, proprio al concetto del rating la disciplina di ”Basilea 2” imposta dalla Banca dei Regolamenti internazionali a tutte le banche del mondo accreditava il ruolo di ”misuratore” dell’affidabilità dei clienti che chiedono prestiti. A prescindere dalla qualità professionale di chi questi rating emette.
Ma c’è un’altra questione sostanziale, dietro tutte queste polemiche. La verità è che, finora, le agenzie di rating sono andate bene a tutti così come hanno funzionato, o non funzionato. Sono andate bene così, perchè fanno parte del sistema e non hanno alcuna sostanziale natura ”antagonista” e caratura d’indipendenza, come invece, in teoria, dovrebbe avere qualunque organo preposto al controllo preventivo dell’operato di amministratori di società e di governanti pubblici.
Le agenzie di rating sono il tipico fiore di quella serra dell’”autoregolamentazione” che tante piante avvelenate a diffuso sui mercati finanziari del mondo. Accanto ad esse è prosperata la malapianta della revisione contabile privata, ma in fin dei conti degli stessi collegi sindacali di tradizione civilistica italiana. Tutte le volte in cui, insomma, si affida al privato l’onere di autoregolarsi, ci si affida di fatto esclusivamente alla sua buona fede e buona volontà. Perchè, al di là delle chiacchiere rimbombanti e vuote che hanno riempito e riempiranno mille aule convegnistiche, non s’è mai visto un controllato che paghi il suo controllore per essere davvero incalzato, messo alle strette e se necessario sanzionato per i suoi comportamenti.
E invece i legislatori hanno sempre sostanzialmente cucito le norme circa i controlli contabili ”su misura” degli interessi dei loro ”danti causa”, cioè dei potentati capitalistici o politici che chiedevano mano libera.
Lo hanno fatto in tanti modi: con l’assurdo delle società di revisione e certificazione dei bilanci delle società quotate scelte e paghate dalle stesse società clienti, di cui sono quindi fornitrici, interessate a conservare le commesse; lo hanno fatto con i collegi sindacali, nominati, e retribuiti, dalle stesse proprietà delle aziende sulla cui buona gestione dovrebbero sindacare. Lo hanno fatto con l’incredible legge italiana 231, che incarica dei dirigenti interni del compito più inverosimile che ingrato di sanzionare il comportamento dei loro capi, cioè di quegli stessi top-manager dai quali dipendono per il posto di lavoro, lo stipendio, le ferie e lo hanno fatto per le agenzie private di rating.
Lo hanno fatto con le regole sull’”internal auditing” delle società finanziarie, in cui dei ”Cirenei” si vedono affidare dal codice il ruolo di chi bacchetta colui che l’ha appena assunto.
Non c’è niente di serio, in tutto questo. E infatti, nessun effetto serio viene generato da questa fenomenale impalcatura di burocrazia. Le società di revisione andrebbero sì pagate dai privati, ma ”in monte”, e scelte e assegnate a ciascuna società quotata da un’autorità terza, ad esempio la Consob, in modo da interrompere.
I sindaci dovrebbero per lo meno essere iscritti a un albo istituito e regolato dallo Stato; e le agenzie di rating semplicemente, dovrebbero essere magistrature pubbliche o parapubbliche. Niente paura: non c’è alcuna possibilità che il sistema si auto-emendi fino a questo punto. Lasciamo passare qualche settimana, e poi sulle polemiche circa l’inaffidabilità e la pseudo indipendenza di agenzie di rating, revisori e quant’altri si stenderà nuovamente il solito, confortevole velo di formalistico consenso.