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 2010  maggio 04 Martedì calendario

IN PENSIONE A 53 ANNI E INDENNIT SPECIALI: QUEI PRIVILEGI CHE NESSUNO PU PI PERMETTERSI

C’è una lezione anche per l’Italia, dalla crisi greca. Sarebbe sciocco negarlo. Ed è anzi una prova di saggezza, quella alla quale tutti siamo chiamati se capiamo bene di che cosa si tratta, e ci tiriamo tutti su le maniche. L’Italia, è vero e per fortuna questa volta tutti lo hanno capito, non era nella lista nera di Paesi dell’euroarea di cui i mercati diffidavano. Eppure c’è ancora qualcosa che l’Italia e gli italiani rischiano, dopo il definitivo via libera degli aiuti europei alla Grecia. In sintesi, tre cose. La prima dipende da come i mercati reagiscono al piano greco. La seconda, dal nostro debito pubblico. La terza, dal significato di questa crisi.
Cominciamo – si fa per dire - dagli spiccioli. Possiamo rimetterci anche noi qualcosa, innanzitutto perché i mercati non anno affatto brindato, ieri, agli aiuti europei e ai tagli draconiani greci. I tassi pagati dai titoli decennali greci, che erano oltre il 10% venerdì scorso, sono rimasti ben oltre il 9%. Un minor deficit pubblico greco di 10 punti del suo Pil entro 3 anni spingerà l’economia ellenica a una dura recessione, e il rapporto debito-pil peggiorerà comunque. Ciò significa che è molto probabile che, al di là degli aiuti e dei tagli, bisogna comunque ristrutturare le scadenze del debito greco. In concreto: significa che i detentori di titoli greci potrebbero rimetterci un bel po’ d’interessi sui titoli che detengono, e aspettare prima di venire rimborsati. In Italia le nostre banche ne hanno molto meno di quelle tedesche e francesi, la perdita potrebbe essere contenuta in tre o quattrocento milioni di euro.
Ma se i mercati pensano che tagli e aiuti non bastano, le pressioni verranno inesorabilmente spostate sugli altri Paesi sospettati, Portogallo, Irlanda e Spagna. Noi veniamo dopo. Abbiamo meno deficit pubblico e non abbiamo il loro debito privato, vantiamo una migliore bilancia dei pagamenti ed esportiamo molto di più. Ma il nostro debito pubblico è al 115% del Pil. Presto o tardi il nostro turno potrebbe venire. Politica e sindacato italiani devono averne la piena consapevolezza, non possono nascondersi dietro un dito o covare illusioni. Più definiscono insieme e annunciano presto, senza aspettare la sveglia del mercato, misure nuove capaci di ridurre il debito pubblico di un bel po’ di punti entro qualche anno, meglio sarà. Faccio qualche esempio semplicemente per capirsi meglio: cedere una bella fetta di patrimonio pubblico, decidere di andare qualche anno più tardi in pensione. Se invece che presto lo si farà dopo, sarà più costoso. Se il tifone sui mercati riprende vigore già quest’anno, avendo pagato 4,8 punti di Pil di interessi sul debito pubblico nel 2009, ci potrebbe costare almeno mezzo punto di Pil di maggiori oneri: e mezzo punto sono 6 miliardi di euro. Meglio pensarci per tempo, e rafforzare ulteriormente la solidità italiana che sin qui, per una volta, ha stupito mezzo mondo.
La terza conseguenza non riguarda la finanza pubblica. La peggior crisi dell’euro mostra che esso è uno scudo, ma non solo per chi tiene i conti pubblici in ordine. Bisogna lo siano anche quelli privati. Da noi, lo sono i bilanci delle famiglie, poco indebitate. Chi perde in competitività rispetto al Paese leader, la Germania, peggiora la sua bilancia dei pagamenti e le esportazioni. E il mercato a quel punto lo punisce. Tradotto: serve liberare spazio vitale all’impresa. Per fare qualche esempio, anche su questo capitolo senza alcuna presunzione di levare spazio alla contrattazione delle parti: solo salario di produttività e basta egualitarismi. Sì immediato ai 18 turni a Pomigliano richiesti dalla Fiat per moltiplicare per otto la produzione in quello stabilimento. No tax area per le imprese meridionali in cambio dell’immediato abbattimento della parte di incentivi all’impresa concessi a in conto capitale e a fondo perduto: la cosa si può fare senza oneri pubblici, perché entrambe le voci si compensano intorno ai 4 miliardi che lo Stato dà da una parte e leva dall’altra, con la differenza che molti dei contributi a pioggia non vanno a imprese vere mentre le tasse sono solo queste ultime a pagarle.
E’ questa, la vera lezione della crisi greca che anche l’Italia deve fare propria. Come tutto il resto dei paesi europei, anche quelli che sino a ieri riconsideravano immuni da ogni pericolo. Dopo un anno mezzo di illusione che la crisi fosse solo un pessimo regalo della finanza anglosassone, il vecchio continente europeo ha scoperto a propria volta di incubare malattie temibili. Nessuno può più credere che la presunta superiorità del welfare europeo possa tradursi in pasti gratis, nessuno può pensare di andare in pensione a 53 anni come i dipendenti pubblici greci, o di ricevere indennità speciali per il solo fatto di presentarsi in orario in ufficio, come capitava ad Atene. Ma è inutile illudersi che da noi non valgano analoghe conseguenze, per il solo fatto che molti degli scandali e delle truffe greche noi le abbiamo evitate, forti della lezione venutaci in anni in cui spesso l’Italia ha lambito la sfiducia piena dei mercati per i suoi comportamenti del passato. Dalla crisi greca viene una pesante sferzata a scrostare ogni inefficienza pubblica, e ogni impedimento alle forze sane dell’impresa italiana di sprigionare tutte le energie sin qui compresse da un fisco penalizzante, e da una spesa pubblica che ha ancora molti margini di disboscamento. Chi non diventa più tedesco, paga il conto e a poco gli serve poi sfilare nelle piazze. Se la politica e il sindacato italiano non lo capiscono, inutile domani piangano sul latte le lacrime che si verseranno.