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 2010  maggio 04 Martedì calendario

SCOPERTO" A NEW YORK UN NUOVO MICHELANGELO

Il capolavoro dimenticato nel soffitto della nonna è un classico della letteratura d´appendice. Ma nessuno si sarebbe mai sognato di ritrovarlo nei corridoi di un´istituzione celebratissima come il Metropolitan Museum di New York.
Possibile? L´esimio professor Everett Fahy, ex direttore del dipartimento Capolavori della Pittura Europa, non ha dubbi: quella «Testimonianza di San Giovanni il Battista», per anni attribuita al pur bravo Francesco Granacci, è opera nientemeno che del grande Michelangelo. E quella tavola che il museo aveva acquistato nel 1970 a un´asta da Sotheby´s, Londra, per soli 150mila dollari, varrebbe la bellezza di 300 milioni di dollari.
La rivelazione del professor Fahy è stata raccolta in America da «ArtNews» e i lettori italiani potranno leggere sulla rivista specializzata «Nuovi Studi» la relazione di 65 pagine intitolata prudentemente «Un Michelangelo dimenticato?»: con tanto di punto interrogativo. La precauzione non è mai troppa?
Il professore mette le mani avanti: «Io so benissimo che Michelangelo, come Van Gogh, è uno di quegli artisti su cui si scatenano le idee più diverse, e che adesso ci sarà chi dirà: ecco un´altra idea assurda. Ma io sono più che convinto». Meno il successore sulla sua poltrona al Met: «Io penso che Everett abbia portato le prove più forti che aveva». E quindi ha ragione o no? «Io non ho detto né sì né no». Le «prove forti» del professore sono state riassunte dal «New York Post» in sei punti principali. La prima riguarda l´ambientazione. La scena della «Testimonianza» - quella del Vangelo di Giovanni in cui il Battista alla vista del Cristo annuncia: «Ecco l´Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo - è ambientata in una cava di marmo: scenario per i tempi (il dipinto è del 1506) esotico ma familiarissimo al Buonarroti che faceva la spola con Carrara alla ricerca della pietra perfetta per le sue sculture. La seconda prova la porta l´analisi ai raggi x: gli altri pannelli che completano il ciclo di proprietà del Met, attribuiti prima a Domenico il Ghirlandaio e poi al Granacci, mostrano pitture e ripitture, fino a cinque volte, mentre il «Battista» ha una prelavorazione minima, si vede la mano sicura di un maestro.
Prova numero tre: uno dei due farisei che compare a sinistra della scena è simile al «Filosofo», un disegno in mostra al British Museum. Prova numero quattro: il quadro è a olio, una tecnica allora innovativa, che Granacci non usa. Prova numero cinque: la figura del Battista ricorda un disegno michelangiolesco custodito al Louvre. Prova numero sei: la giovane donna sulla destra del quadro ha la stessa posa dell´uomo del celebre Tondo Doni. Ma più di tutto a convincere Fahy è «la grande libertà con cui sono disposte le figure, mostrando quel tipico contrapposto che è lo stile di Michelangelo nella Cappella Sistina» che verrà dipinta due anni dopo.
Peccato che per ora neppure il Metropolitan ha dato retta al suo ex direttore: il dipinto, in mostra nella Galleria numero 7 del museo, porta la firma «Dalla bottega di Francesco Granacci». Chissà ancora per quanto.