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 2010  maggio 06 Giovedì calendario

QUESTA LA MIA VITA - GIORGIO ARMANI SI CONFESSA


«Non dimenticherò mai quella volta in cui chiesi a mia madre se era contenta del mio successo. ”Sì, Giorgio, ma è un po’ tardi” mi rispose. Una frase terribile. Lei non aveva mai avuto nulla, non aveva viaggiato, e allora che avrei potuto darle tutto era troppo in là con gli anni. Si era fatto troppo tardi: gli scherzi della vita». Giorgio Armani è generoso di ricordi e si sente a suo agio tra le lussuose mura del suo primo Armani Hotel di Dubai, nel cuore della città tirata a lucido da schiere di lavoranti di nero vestiti, all’interno della Burj Khalifa, il grattacielo più alto del mondo. Qui non c’è nulla che non sia griffato Armani, dalle lampade alle pareti scorrevoli rivestite in seta, dal sapone alla macchina del caffè. «Ma non mi sento a casa: le mie case non sono così lussuose! Però è piacevole la sensazione di vedere 160 stanze realizzate esattamente come avresti voluto. Le ho immaginate cinque anni fa e ora, come per magia, si sono materializzate».

Che Armani sia contento lo si capisce dagli sguardi benevoli che elargisce al suo staff, a Paul (Lucchesi), il suo assistente personale, a Fabio, a Rod e alla sua storica guardia del corpo, Augusto. Fra loro ballano sguardi d’intesa, si è instaurata un’equilibrata sintonia silenziosa che fa muovere una macchina organizzativa gigantesca. L’inaugurazione dell’hotel ha un cerimoniale ricco e complicato che prevede la partecipazione di oltre 450 ospiti da tutto il mondo.

«Ragazze, siete a Dubai, dovete sentirvi delle dive irraggiungibili» suggerisce intanto Armani alle modelle arrivate da Parigi per la prima sfilata di haute couture nel mondo arabo. E, mentre fervono i preparativi per la sfilata, Panorama ha incontrato lo stilista: una lunga conversazione a cuore aperto.

Certo che Dubai, per i suoi eccessi e per il suo grado di finzione, sembrerebbe lontana dalla sua estetica.

Ci ho pensato molto prima di accettare. Poi ho ritenuto che potesse essere una nuova sfida. Naturalmente ho subito spiegato a Mohamed Alabbar, presidente di Emaar Properties che mi ha proposto quest’avventura, che non avrei mai fatto scaloni di marmo, maniglie dorate, vasi giganteschi su tavoli d’argento. Il mio stile è minimal. Ma poi ho capito che loro volevano proprio questo: introdurre un diverso concetto di lusso, fatto di dettagli, di raffinatezze non ostentate. La mia operazione è stata quella di togliere. Ho fatto in modo che le pareti fossero tutte arrotondate per eliminare gli spigoli. Non solo, ci sono pareti mobili che nascondono tutto, anche il letto. Ho scelto luci soffuse e tendaggi pesanti perché il sole qui è violento. Ma la cosa a cui tengo è la struttura d’ingresso, che poi è anche il logo dell’hotel: una rosa del deserto, un quadrifoglio con petali a forma di vela che ricorda le volte delle moschee, anelito verso l’alto per chi vive nella concretezza del basso. Fino a 3 metri di altezza c’è la vita, poi comincia qualcos’altro».

Perché proprio un hotel, in questo momento della sua carriera?

Credo che un albergo sia meno perituro della moda, è qualcosa che rimane nel tempo. Penso sia bello lasciare una traccia del proprio lavoro, il ricordo della propria presenza sulla terra. Non voglio certo lapidi, preferisco l’idea di lasciare qualcosa di molto confortevole come mio ricordo, della mia moda e delle mie battaglie nella vita. Perché ne ho fatte tantissime.

E qual è stata quella più difficile?

La più grande è stata superare la perdita di Sergio Galeotti (storico socio e compagno di vita, ndr). stato un trauma pesante che non ho ancora superato, se proprio vogliamo dirla tutta. In questi due anni di malattia ci ho pensato spesso. Sul lavoro invece le battaglie sono quotidiane. Significa trovarmi nel letto e non dormire, pensare: farò bene, sono nel giusto? Le persone a cui faccio riferimento hanno una loro opinione della quale posso tenere conto, ma alla fine quando prendo una decisione sono solo. un peso che solletica il mio ego, e al tempo stesso mi stressa.

Lei ha accennato alla sua malattia. Cosa ha provato: impotenza, sconforto?

No, esattamente il contrario. Naturalmente il mio fisico ha dovuto rallentare i ritmi perché non era idoneo a superare certe situazioni, anche se la testa volava. Anzi, la mia testa ha fatto in modo che questa malattia fosse debellata, ha avuto il sopravvento sul corpo. Ne sono uscito rafforzato. Certo, ho pensato che c’è qualcosa al di sopra della nostra volontà che può intervenire nella tua vita, gettarti in braccio all’ignoto. La malattia mi ha fatto pensare anche ai rapporti interpersonali, al poco tempo che dedichiamo agli affetti veri.

Ha mai pensato di pregare?

Sì, il mio segno della croce me lo sono fatto, ma con un po’ di sospetto. Lo stesso che ho provato da bambino quando ho preso la prima comunione.

Ma è un sospetto nei confronti dell’esistenza di Dio o del ruolo della Chiesa?

Di certo la Chiesa ultimamente ha preso delle belle batoste. Ma non voglio infierire, è composta da esseri umani, con le loro malattie e debolezze. Il problema è che la Chiesa non ha un approccio vero con la modernità. Alle mie partite di basket viene sempre un prete che si agita come un ragazzetto di periferia, non conosco il suo nome, eppure potrebbe essere un piccolo esempio di modernità. Le gerarchie ecclesiastiche sono desuete, le formule superate. Non voglio screditare la Chiesa, ma una modernizzazione sarebbe necessaria, non si può ancora parlare del diavolo. Alla fine, io entro in chiesa quando non c’è nessuno. Quando Sergio era malato, tutte le mattine andavo a San Babila a Milano: c’era un Cristo bellissimo e mi fermavo davanti senza dire nulla, poi me ne andavo. Secondo me anche i giovani vorrebbero avvicinarsi a una certa intimità con il divino, ma a volte non ci riescono.

E dell’atteggiamento di molti cattolici verso i gay cosa pensa?

Non sono solo loro a condannare. L’omosessualità nella nostra società non sembrerebbe più un tabù, ma in realtà non è così. Prima era considerata una malattia, adesso si dice «poverino». C’è un’accettazione ma con riserva, come un difetto fisico che non si può curare. E c’è sempre questa attenzione un po’ caritatevole che mi dà fastidio. Oggi i genitori possono anche dire di avere un figlio gay, però diventano automaticamente figli speciali, non sono figli normali. Ha capito cosa voglio dire?

Come ricorda la sua infanzia?

Erano anni duri, in pieno periodo bellico, parliamo degli anni Quaranta. Ho vissuto un’infanzia abbastanza infelice, ma di un’infelicità tutta interna. Una specie di scontentezza generica dovuta alla ricerca di qualcosa che alla fine non ho mai potuto avere, vuoi per la situazione della famiglia, vuoi per il momento storico. Adesso sto restaurando la casa di Saint- Tropez, la voglio molto tradizionale, come la casa che non ho mai avuto nella mia infanzia. Mi ricordo una volta, fui invitato da un compagno di classe a prendere un tè, che per me era una cosa misteriosissima, un rito lontano migliaia di chilometri dalla mia famiglia emiliana. Mi sentii molto a disagio, mi mancava qualcosa: forse, semplicemente, volevo arrivare ad avere. I miei genitori non mi hanno mai fatto mancare nulla, mia madre non aveva una lira ma aveva cercato di farmi studiare il violino. C’era il pane cattivo durante la guerra: lei prendeva la bici e andava nelle campagne a cercare quello buono.

E di suo padre che memorie ha?

Lavorava molto, lo vedevamo il sabato. Era taciturno, non lo ricordo quasi mai in conversazione con mia madre, però quando diceva una cosa spiritosa lo era veramente. Ricordo quando contava i soldi che toglieva dalla piccola cassaforte di metallo, tirava fuori il malloppo di 1.000 lire, quelle grandi, e noi stavamo tutti in silenzio attorno a lui: sì, me lo ricordo come fosse ieri. Naturalmente, lo faceva per controllare lo stato di fatto. Era un momento molto speciale e mio fratello si dava un tono, era il più grande di noi e la mamma lo adorava perché era bello, biondo, alto e forte. Era innamorata pazza di lui. Sembrava un Joseph Cotten dell’epoca, coraggioso e vitale. Quando annunciò che voleva andare con le Fiamme bianche per difendere la patria, mia madre scoppiò in lacrime, io ero piccolo ma capivo tutta la drammaticità della situazione. La stessa che si ripeté quando, noi sfollati, vedemmo mio padre partire per il militare: fu un momento difficilissimo quel distacco dalla famiglia, piangevamo tutti.

Lei è uno degli uomini più famosi del mondo: oggi è felice?

Dentro di me, in profondità, c’è sempre un po’ di quella scontentezza che avevo da ragazzo, una sensazione difficile da definire perché trovo sempre qualcosa che non torna, che avrebbe potuto essere ma non è. Anche nei rapporti umani.

E questo suo modo di essere perennemente insoddisfatto le dà fastidio?

Moltissimo, perché alla fine resto un rompiballe. Con un esasperato senso dell’estetica, non solo fisica ma anche mentale, che mi porta a non dire mai «che bello!» fino in fondo, a non essere mai del tutto contento. Devo dire che la malattia mi ha portato a vedere con più lucidità questo mio atteggiamento, a ripensare all’eccessiva severità nei miei confronti e nei riguardi degli altri. Ma non è facile cambiare.

Lei è severo, però tutti dicono che sia molto rispettoso ed estremamente educato anche con il meno importante dei suoi dipendenti.

Ho imparato da mia madre. Lei aveva pochissimi amici perché non aveva tempo: tre figli da crescere, un marito che non c’era mai. Al tempo stesso però aveva un grande senso di rispetto nei confronti del prossimo che ci ha inculcato. E questo mi ha aiutato nella vita. Durante il militare, chiedevo sempre le cose per favore. Ai miei commilitoni provenienti da tutta Italia dicevo: per favore, mi passeresti il pane? Loro non erano abituati e si sentivano gratificati dalla mia gentilezza, per quanto umili fossero. Tanto è vero che non ho mai fatto una notte di guardia, mi dicevano: «Non ti preoccupare, faccio io il tuo turno».

Quanto è importante la famiglia?

Alla famiglia si torna sempre. Anzi, l’unica cosa che ha un senso è la famiglia. Quando pensi che puoi lasciarla e andartene in giro per il mondo a fare la tua vita, alla fine c’è un momento in cui la famiglia ti serve e rientrare nei tuoi affetti, ricordare incazzature e momenti felici vissuti insieme, ti serve a ricostruire chi sei, da dove vieni. In momenti di duro lavoro, di preoccupazione, chiamavo sempre mia madre e le chiedevo di andare a cena da lei.

C’è un consiglio che sua madre le ha dato e lei non ha seguito?

Sì, circa vent’anni fa mi consigliò di mollare tutto: «Sei sull’onda del successo, è il momento di lasciare» mi disse. Ma io non le diedi retta perché ritenevo fosse ancora troppo presto. Mi vedeva stressato, affaticato, esclusivamente dedicato al lavoro, trascurando la mia vita. E questo la faceva soffrire.

Le dispiace non avere avuto dei figli?

Certo, però non sarei stato un buon padre. Sarei stato possessivo, ossessionato dal vedermeli sfuggire dalle mani e quindi penso che avrei sofferto se mi avessero in qualche modo tradito. E poi dico la verità: non ho avuto tempo di pensare ai figli, questo mestiere ti fagocita, ti costringe ad avere una vita sola, quella professionale. Altrimenti non arrivi, sei lì per un periodo e poi cadi. Ci sono molti esempi nella moda di gente che è arrivata e poi è scomparsa: tener duro richiede rinunce.

Si considera generoso?

Generoso? Forse non tantissimo. No, forse perché mi è costato molto quello che ho. Mi è costata la mia vita.

Come si sveglia al mattino?

Non mi sveglio mai incazzato, anzi sono felice di andare al lavoro, corro. Poi arrivo e i corridoi sono vuoti e allora sì che mi incazzo. Ma mi passa presto.

Pensare al futuro le regala una carica adrenalinica o una certa dose d’ansia?

Dipende dall’ora del giorno, da con chi sono e dall’impegno che ho. Non c’è una regola, posso avere un momento d’abbandono durante una colazione importante con gente importante, durante il quale mi chiedo: ma perché sono qui? Tanto, per quello che mi rimane... Questa frase è orrenda, ma mi viene in mente spesso. Ci sono, fortunatamente, gli alti e i bassi. Però i grandi progetti per il futuro mi lasciano sempre perplesso. Anche se, con la mia storia e con la mia azienda, devo per forza pensare al futuro.

L’ultima domanda è di rito: sta pensando a organizzare l’azienda per il futuro?

La risposta è altrettanto di rito: certo. Sto strutturando l’azienda in modo che quando io non dovessi essere più presente potrebbe tranquillamente continuare a realizzare quello che ho realizzato io. Naturalmente affrontando il vero problema, quello di un mercato pronto a dire: «Non c’è lui, e si vede». Ma no, non è sempre detto. Mi piace l’idea che questo, in futuro, non si dica affatto.