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 2010  aprile 28 Mercoledì calendario

SPINOZZI: IL CALCIO TRUCCATO DA SEMPRE

«Mi si poteva incontrare per Roma con la maglia di Arcadio Spinozzi, un libero all’antica il cui viso sembrava essere divorato dalla barba. Arcadio Spinozzi era la Lazio. La rappresentava molto più di campioni del calibro di Giordano e Manfredonia. Quella maglia d’un blu assai più elettrico di quanto apparisse in tv era tutta per Arcadio».
Il ricordo di Alessandro Piperno (scrittore di successo) fotografa un’epoca. Effetto ottico (Spinozzi era un terzino), fideismo assoluto nei confronti di ”Spina”, totem laico, sindacalista, scrittore, provinciale di pensiero fine e ubicazione romana tra il 1980 e il 1986. Centoventitrè presenze con la Lazio. Allenatore di prima categoria dimenticato per la sua opposizione al sistema, abruzzese a schiena dritta che nella settimana decisiva per lo scudetto, con Lazio e Roma legate da un destino divergente, non si nasconde e affronta i
dubbi sulla regolarità del torneo. Parla, ragiona, sbuffa, precisa. Le partite durano sempre più di novanta minuti. Le peggiori intenzioni, nell’angolo, in attesa.
«I comportamenti dei personaggi che gestiscono il calcio, non cambiano. Il sistema, al di là degli spot, è sempre quello».
Pallone alterato?
«Lo specchio del livello di corruzione del mio vecchio mondo è stampato in qualche vecchio faldone. Basta leggere le intercettazioni riguardanti Calciopoli, per capire in un attimo ciò di cui stiamo parlando».
Si spieghi.
«Si arrivava a truccare tutto. Non solo a livello di arbitraggi, designazioni e campionati. Si giungeva a condizionare i rapporti con calciatori, allenatori e informazione».
Un ganglio importante.
«Se è libera, la stampa può far venire alla luce scandali e trucchi che si utilizzavano allegramente all’epoca e credo si usino anche oggi per condizionare da cima a fondo i tornei».
Nella sua esperienza quasi decennale in serie A, vide qualcosa di strano?
«Il presidente del Verona Saverio Garonzi venne da me e mi disse che era disposto a darmi due milioni per far vincere il Milan. Il torneo, per darle una coordinata, eraquello giocato tra il ”78 e il ”79».
E lei?
«Rimasi incredulo però negli anni successivi ho avuto modo di constatare con nettezza quello che accadeva. Poca cosa comunque, rispetto a quello cui siamo stati costretti ad assistere in seguito. Ogni tanto, nei momenti cruciali del torneo, escono alla luce strani personaggi. Indirizzano, guidano, rendono malleabili le persone».
Come si capisce se una partita è combinata?
«O si è un po’ coinvolti perché la voce circola (e un calciatore lo sa perfettamente) oppure bastano gli atteggiamenti a inizio partita. In certi casi è sufficiente l’esperienza tattica per capire se un compagno sta agendo nel modo sbagliato. Per tacere naturalmente di arbitri o segnalinee. Valutare i loro comportamenti fin dall’inizio della gara è un buon metro di giudizio ed è fin troppo semplice».
Illustri.
«Sorvolare sui falli compiuti da una squadra, perseguitarne un’altra. Ammonire i riottosi all’accordo, metterli nelle condizioni di non nuocere. L’arbitro condizionato lo riconosci subito. Vedi gente placcata in area con il direttore di gara girato dall’altra parte, e nell’altra
area al primo movimento, chissà perché, immediata arriva la sanzione».
Ma come? E il peso della tv?
«A livello televisivo non ci si accorge di nulla, ma in effetti le parole in campo pesano e basta sussurrare quelle giuste, magari coprendosi la bocca, per avvertire chi di dovere.
Questo per quanto concerne la gara, poi esistono ammoniti, diffidati, squalifiche preventive. Tutto dipende dal calendario, è quasi uno studio analitico. Ma non sto raccontando novità. Lo sanno tutti, anche se nessuno ha interesse a parlarne».
A Roma sta accadendo qualcosa di strano. Qualcuno sussurra che davanti a una sconfitta contro l’Inter, la curva Nord esulterebbe. Impegnarsi, al contrario, produrrebbe il paradosso di far vincere lo scudetto alla Roma.
«Anche nel 2002 la situazione era non dissimile, con la curva laziale interamente schierata a favore dell’Inter. Niente di nuovo. Nella cultura del tifoso italiano in genere, c’è questo tarlo. A parti invertite, le garantisco, sarebbe la stessa cosa. La gara però è un’altra vicenda.
Per leggerla in profondità, è necesario guardare altrove. Lontani dall’Olimpico».
Dove?
«Agli interessi comuni tra società, presidenti, procuratori. Mi sono spiegato? Quando uno ha a disposizione e gestisce un gran numero di calciatori, non c’è neanche bisogno di raccontare troppo».
Dunque domenica?
«L’inter rimane una grande squadra, però la Lazio malgrado il campionato negativo ha sulla carta gli uomini per poter mettere in difficoltà chiunque. L’Inter, ma è un’opinione personale, se vuole vincere dovrà sudare. Che i laziali lascino campo libero non credo».
I tifosi della Roma intanto andranno in via Allegri. Dubitano del corretto svolgimento del
campionato. Fanno bene?
«Dubitare è un diritto, è lecito. Se ripercorri quello che succede da decenni, o leggi gli atti dei processi, non devi solo dubitare, ma covare certezze».
Quindi la Roma non vincerà lo scudetto?
«Papà Sensi, il vecchio Franco, cercava di contrastare questo sistema di cose e quando iniziò a star male fisicamente, la situazione cambiò. Le mani libere nel calcio non le ha
nessuno. Sono tutti ricattabili sotto ogni aspetto, non solo a livello calcistico, anche mediatico».
Spinozzi come vivrebbe questa settimana?
«Serenamente, la partita di Genova ha scacciato l’incubo della retrocessione.
Genoa-Lazio non è stata proprio combattutissima. Recitiamo dalla ”Gazzetta dello
Sport” sulla prestazione dei padroni di casa: ”Mettercela tutta è un’altra cosa”.
«Non ho visto la gara, non lo so. A me non è mai capitato di entrare in campo sapendo di perdere in anticipo,non l’avrei mai accettato».
Spinozzi il piantagrane.
«Se non ne potevo più, non mi tenevo. Certi dirigenti avevano la faccia di bronzo, io lo dicevo a voce alta e loro mi allontanavano. Sono un allenatore di prima categoria, il master lo feci nel ”98, presi il massimo dei voti, ma in quel calcio non significava niente, se volevi lavorare o ti appoggiavi alle cordate e al sistema o eri fuori. Semplice, pulito, indolore».
Nello spogliatoio laziale, Moggi lo chiamavate Barabba, non vi fidavate.
«Da quarant’anni è ancora lì, ho sempre saputo tutto o almeno sospettato di determinate dinamiche. Anticipai Calciopoli in un libro del 2001».
Si trova in libreria?
«All’ultimo istante, stranamente, l’editore si tirò indietro. Oggi, Il tentativo è quello di ribaltare la storia. Vergognoso. Quello era un sistema granitico che coinvolgeva finanza,
polizia, magistratura. Personaggi importanti, vertici del triangolo. La rete era talmente ampia
e vasta, che scalfirne le pareti era impossibile».
Fabian O’Neill, ex di Juve e Cagliari, ha sostenuto di aver partecipato a gare organizzate, parlava di linguaggio cifrato, di braccia alzate, di una liturgia per pochi eletti.
«Si ricorda del brasiliano Tuta in Venezia-Bari del ”99? Entrò a fine gara, segnò il 2-1 per i locali e si ritrovò a esultare da solo, quasi minacciato dai compagni. Non l’avevano avvisato dell’accordo e dovette emigrare. Riguardo a O’Neill, tutto è possibile, può essere vero. Non so se il linguaggio fosse quello, ma di gare combinate ce ne sono tantissime. A me in prima persona, capitò in due occasioni».
Dica.
«La prima volta avvenne in Bologna- Juventus del gennaio 1980. La Juve era messa male, alla nostra società (Spinozzi era al Bologna, ndr) il pari andava bene e dell’accordo sapevamo tutti. Il nostro portiere Zinetti fece un errore grave, Brio rimediò con un autogol. La seconda fu Cavese-Lazio, torneo di B, del giugno 1983. Loro volevano mantenere
l’imbattibilità casalinga, noi cercavamo il punto che ci serviva per la promozione in serie A.
Finì 2-2. Bastava far capire all’avversario di non voler raggiungere un risultato a tutti i costi ed era fatta. Era una combine, per così dire, circoscritta. Da ragazzo non volevo crederci,
avevo strane sensazioni ma rifiutavo persino di considerare la possibilità. Nella maturità, mi resi conto appieno, ma ero rispettato e dovevano passare anche attraverso me. Nessuno venne più a dirmi certe cose e quindi escludo sia avvenuto ancora».
Però i tornei, mi ha detto prima, erano comunque condizionati.
«Bastava una designazione. Leggevo il nome dell’arbitro e capivo. Sapevo già che fine avremmo fatto. Gli arbitri facevano parte del sistema e nelle gare chiave, apparivano sempre quelli. Con quei due o tre nomi non c’era possibilità, perdevi in partenza. Le racconto una cosa».
Prego.
«Era il gennaio 1979 e a Pescara, in campo neutro, si disputò Napoli-Verona. Noi quasi in B, loro all’inseguimento dell’Uefa. L’a r b i t ro , quel giorno (Spinozzi il nome non lo fa, ma è Gino Menicucci di Firenze, ndr) si comportò in maniera allucinante. Io non avevo mai visto niente del genere. Negli spogliatoi fu brusco: ”Non rompete i coglioni, la partita l’avete già persa”. In campo, sembrava indemoniato. Urlava a distanza di 30 o 40 metri. Lo ascoltavano tutti, dalle panchine e forse anche dagli spalti. Doveva vincere il Napoli. ”Appena arriva la palla in area vi do il rigore contro ”. E andò così. Penalty di Savoldi, sconfitta e caos negli spogliatoi. Successe di tutto, squalifiche, proteste, porte rotte. Il nostro presidente Garonzi esondò e venne squalificato a vita. Noi eravamo sgomenti, io un ragazzo, solo col tempo ricostruii fino in fondo».
La fotografia di 20 anni di calcio?
«Juan Carlos, il tecnico della Lazio di Chinaglia, aveva l’abitudine di indossare indumenti ridicoli: pantaloni ascellari, scarpe con tacchi esagerati, capelli cosparsi da un ampio strato di brillantina. Sembrava un matador. Il giorno del derby iniziò a cantare a squarciagola
vecchie canzoni argentine. Cinema puro».
Malcom Pagani