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 2010  aprile 24 Sabato calendario

FARO’ I CONTI CON CHI HA OFFESO IL RISORGIMENTO

A Mario Isnenghi non fanno paura le sfide imponenti. Col suo libro I vinti di Caporetto (1967) seguito da Il mito della Grande guerra (1970) ha aperto una nuova stagione nello studio dell’impatto del primo conflitto mondiale sulla società italiana. Poi si è dedicato a decifrare sussulti e continuità della cultura del nostro Novecento, facendone racconto in Intellettuali militanti e intellettuali funzionari uscito da Einaudi nel 1979. Quindi è stato il curatore dei tre volumi dei Luoghi della memoria, mappa tematica di stimolante approccio ai simboli e ai miti dell’Italia unita che Laterza si appresta a ripresentare in tascabile. Adesso ha appena terminato di coordinare per la Utet Gli italiani in guerra. E’ una ricognizione, articolata in cinque volumi, centinaia di saggi di altrettanti collaboratori, in totale quasi cinquemila pagine complessive, che da poco ha trovato conclusione con Le armi della Repubblica, tappa finale di un affresco puntuale e documentato che scruta tutti gli aspetti del Bel Paese in armi, dal Risorgimento sino all’attuale missione in Afghanistan.
Professore ordinario di storia contemporanea a Venezia, dove presiede l’Istituto veneziano per la storia della Resistenza e dirige la rivista di storia locale «Venetica», Isnenghi vive a Padova.
Venezia e Padova. Una polarizzazione tra queste due città che scandisce tanti aspetti della sua militanza intellettuale, del suo impegno civile. C’è un inizio?
«Sì, il più semplice. Quando prendo la maturità a Venezia e mi sembra di intravedere nel mio orizzonte professionale un triplice possibile futuro - insegnante di lettere (in una scuola media ovviamente, scartata ogni ulteriore ambizione), scrittore o giornalista - mi iscrivo presso l’università patavina, a Lettere. Perché comunque la letteratura, i libri, costituiscono già da allora la bussola da cui non posso prescindere...».
Grazie alla biblioteca di casa?
«A casa dei miei genitori, a Venezia, la parte del leone la fanno i libri di narratori inglesi. In lingua originale, visto che mia madre insegna l’inglese a mezza città. Ma su di me lasciano scarsa traccia. Sui banchi di scuola faccio i conti con De Sanctis: un’impronta - quella di uno Stato italiano che nasce dalla breccia di Porta Pia, dunque anticlericale - che in me permane. Fuori dall’aula scopro Tonio Kröger: adolescenti siamo tutti dei Tonio Kröger alla ricerca del nostro destino. Poi arriva a La Montagna Incantata. Vi trovo Settembrini, il pedagogo, l’intellettuale, l’italiano sanguigno allievo del Carducci. Diventa il mio modello».
Dunque incontra un maestro, seppure di carta...
«In effetti sono stato ancora più fortunato perché incontro, tra il liceo e i primi anni d’università, tre maestri veri. La scoperta di Don Chisciotte, anzi del Don Chisciotte ripensato da Miguel de Unamuno, avviene in una specie di cenacolo di letture, a Venezia. Una signora dal nome importante vi raduna degli studenti. Si leggono i classici russi. Sono fulminato da L’Idiota. Commosso da Missa sine nomine di Ernst Wiechert. Prendo gusto a leggere in pubblico, ad alta voce, nella sala bianca del Caffè Pedrocchi, a Padova...».
Il baricentro dunque si sposta in quel di Padova?
«Non del tutto. In quel periodo leggo Gramsci e chi me lo fa conoscere? Gli amici della Fuci di Venezia. La Fuci vuole dire per me lo studio di Maritain, di Mounier. Attraverso la Fuci veneziana, quella del carismatico don Germano Pattaro, arrivo a Wladimiro Dorigo. Era uno dei giovani astri dell’Azione Cattolica che Gedda ha appena epurato da Roma. Dorigo è un intellettuale finissimo, con una rete di relazioni culturali impressionante. E’ il direttore de Il popolo veneto, settimanale della sinistra di base Dc ma, soprattutto, è il fondatore di Questitalia. Questa rivista che non si definisce cattolica e che di fatto è anticoncordataria, per l’autonomia tra Stato e Chiesa, sarà un punto di riferimento per quando si arriverà al Concilio voluto da Roncalli che sino al ’58 è stato il Patriarca di Venezia. Dorigo per me è il rigore, il "doverismo" vero. Un "doverismo" altrettanto forte lo scopro anche nel Vittorini di Conversazione in Sicilia che leggo agli amici del "Pedrocchi"...».
La signora del cenacolo, Dorigo. Manca ancora il terzo maestro...
«Ci sto arrivando. Accade a Padova. Mentre a Venezia frequento la Fuci, a Padova faccio politica universitaria nella laicissima Ugi, quella di Lino Jannuzzi e Pannella. A Padova sono "il cattolico" dell’Ugi. Una contraddizione che non può durare. Faccio i conti col fatto che gli amici della Fuci sono davvero credenti. Io no. Così mi laicizzo. Entro nei giovani del Psi che a Venezia, come idee nuove, vuol dire il giovane De Michelis. A Padova invece brilla Toni Negri. E’ lui il terzo significativo incontro della mia formazione giovanile. Il Toni Negri che prima era il giovane astro del mondo cattolico padovano, il pupillo del vescovo Girolamo Bordignon. Poi è diventato consigliere comunale del Psi e ha intrapreso una rapidissima carriera accademica. Il Psi a Padova pubblica Progresso veneto che mi viene affidato e, con Negri, percorro il Veneto per un’inchiesta articolata a tappe. Incontriamo sindacalisti, militanti. Io, svelto di penna, fisso ogni impressione e poi scrivo i reportage. Intanto scopro anche Panzieri e il suo impegno generoso. A Milano incontro Gianni Bosio e quelli delle edizioni del Gallo. Mi laureo nel ’62 con una tesi sugli intellettuali del primo Novecento italiano. Ovvero Salvemini, Gobetti, Gramsci. Quando Negri e gli "operaisti" danno inizio all’intervento sulle fabbriche sono insegnante alle medie di Feltre, seppur per poco, visto che mi sospendono per un tema su "Carlino e l’amicizia amorosa con la Pisana" giudicato troppo osé. Insegnerò nelle superiori, per anni, altrove, prima di approdare all’università: quella di Padova, poi Torino e infine Venezia. Un letterato prestato alla ricerca storica. O viceversa. Alla metà dei ’60 l’intervento sulle fabbriche non mi appassiona. Insegno e vado ad approfondire il tema degli intellettuali, delle riviste, dei giornali di guerra. Studio l’ultimo anno della Grande Guerra. L’Italia che a Caporetto fa i conti con la realtà vera della nazione. Analizzo le velleità rivoluzionarie e lo Stato che sembra prossimo a sbriciolarsi come accadrà nel ’43 e invece a Vittorio Veneto sa rimettersi in piedi. Attorno a questi nodi ruota la trilogia che ho dedicato alla grande guerra».
E adesso?
«Dopo il decennio dedicato a studiare gli intellettuali, e gli anni successivi profusi sui meccanismi della storia e della memoria nazionale, sono ancora a scrutare questo Paese e le sue vicende. Sto lavorando a un libro per Laterza su come lo Stato unitario è stato percepito in questo secolo e mezzo. Voglio prendere il Risorgimento sul serio e fare quello che molti eviteranno. Fare i conti con un Risorgimento oggi conculcato e offeso. D’accordo, non tutto è andato nel migliore dei modi. Ma a volte, per capire, bisogna riconoscere anche dove sta il minore dei mali possibili, quando e dove sa farsi spazio. Del resto, mi sento un ircocervo, un ibrido, un nazionalista di sinistra che in un certo senso è diventato comunista con l’89, dopo la fine del comunismo. Perché? Perché pensavo che chi parlava di rivoluzione dicesse sul serio. Ecco, io sono uno che prende le cose sul serio».
gboatti@venus.it