Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  aprile 23 Venerdì calendario

«DEVI ANDARTENE». «MI CACCI?». BERLUSCONI-FINI ALL’ULTIMA LITE

Come un marito e una moglie che d’improvviso si gettano addosso i rancori di anni – «dillo davanti a tutti, cosa mi hai detto l’altro giorno!», «ma se te l’ho detto cento volte!», «te ne devi andare», «mi stai cacciando?» – e ogni tanto si abbandonano a rievocazioni quasi romantiche: «Ti ricordi quella discussione di ore?», «ti ricordi quante litigate?».
E dire che erano partiti calmi e tranquilli. Congresso entro l’anno, riforme condivise, votazioni interne al partito, «incontriamoci più spesso». Toni da conciliazione, come suggeriva l’indirizzo della Direzione Pdl, all’ombra di San Pietro. Invece i due non si sono tenuti. Al di là delle cose dette, è il tono con cui Fini ha chiamato il premier «Berlusconi» – mai «presidente» e una sola volta «Silvio» ”, è il modo in cui si è alzato a sventolargli il dito sotto il naso, a rendere il divorzio irreparabile, sia pure non ancora formalizzato.
Berlusconi era nervoso fin dall’inizio. Per la prima volta in 17 anni di politica presiedeva un’assemblea in cui veniva criticato anziché celebrato. Una giornata da Prima Repubblica. Niente Meno male che Silvio c’è; musica da ascensore. Mentre parla Fini, Berlusconi resta a braccia conserte, fa la faccia scura, tamburella con le dita sul tavolo. Platea gelida e tesa; solo Dini dorme il sonno del giusto. Quando il presidente della Camera cita «gli insulti ricevuti da giornalisti lautamente pagati da stretti familiari del presidente del Consiglio», la platea già fredda si lascia andare a brusii, fischi e grida di disapprovazione. «Ma se ti ho detto che sono pronto a vendere una quota del Giornale a un imprenditore vicino a te! – grida Berlusconi ”. E comunque il più duro nei tuoi confronti è Libero, che è di Angelucci, un tuo amico personale». Fini non si ferma, Alemanno si copre gli occhi con le mani. Smorfia sdegnata di Quagliariello, urla dal fondo che incredibilmente non svegliano Dini. Lo scontro degenera quando il presidente della Camera chiude parlando di giustizia. Basta una frase – «non dobbiamo dare l’impressione che stiamo difendendo sacche di impunità, ricordati quando volevi far saltare seicentomila processi» – per far scattare Berlusconi: «Erano seicentomila su otto milioni!». Il premier ribalta la scaletta, sceglie di rispondere subito, riferisce altre conversazioni private, cerca e trova lo scontro: «se vuoi fare politica, non puoi fare il presidente della Camera». Meglio che Fini se ne vada adesso, con pochi fedeli, che dopo un anno di logoramento; ma non è calcolo, è emozione, e rancore reciproco. Le donne, dalla Carfagna in nero alla Mussolini informale con la coda, dalla Lorenzin in mocassini alla Carlucci che con i tacchi arriva quasi a due metri, sono tutte in piedi ad applaudire il capo. Dini si sveglia. Fini patisce, non è brillante come al solito, neppure lui è abituato ad accoglienze ostili, e oggi la platea al 90 per cento è ostile. Berlusconi vince questa udienza della causa di separazione, ma per tutta la giornata resterà come stordito, stanco, sofferente. Il reato di lesa maestà è consumato, e per sempre.
La regia è concepita per mettere Fini in un angolo. «Puerile» la definisce lui. Dei tre coordinatori del partito è ilmite Bondi ad azzannarlo, a ricordargli quanto deve a Berlusconi e dove sarebbe oggi la destra missina senza il Cavaliere. Poi sfilano i ministri, ognuno rivendica il «governo del fare» e depreca che il Pdl si divida dopo «una grande vittoria», Tremonti mette a segno la migliore battuta della giornata’ «la sinistra è più che mai il partito dell’Appennino e Vendola rappresenta l’Appennino dauno» – ma neppure lui tende la mano a Fini, sempre più isolato. Il presentatore è Berlusconi, che introducendo gli interventi pianta ogni volta una banderilla: «Prima ho ringraziato i cofondatori Fini, Rotondi e Giovanardi. Mi sono dimenticato, e mi scuso, degli altri cofondatori Mario Baccini, Alessandra Mussolini, Stefano Caldoro, e poi Dini, Buonocore, Biasotti, Nucara, De Gregorio...». «Ho scoperto che eravamo in tanti a cofondare il Pdl» sorride amaro il presidente della Camera. Che poi si spinge allo scoperto: «Ora che la campagna elettorale è finita, credi veramente, Berlusconi, che la lista del Pdl nel Lazio sia stata esclusa per un complotto dei magistrati?». Fini definisce Tremonti «il miglior ministro dell’Economia possibile», ma poi lo rimprovera di trovare i soldi solo per la Lega e non per i 150 anni dell’Unità d’Italia («ma se ne parliamo tutti i giorni!» esplode Berlusconi). Poi concede al Cavaliere il titolo di «statista», ma lo mette in guardia sul rischio di finire come gli altri due leader di partito entrati a Palazzo Chigi: Craxi e De Mita (Berlusconi accoglie l’accostamento a De Mita come un affronto personale).
Brunetta dichiara di divertirsi, ma è l’unico. Bocchino, Urso, Raisi, i finiani indicati dal premier alla pubblica riprovazione, rinunciano a prendere la parola. Fabio Granata: « chiaro che hanno scelto di cacciarci. Noi resisteremo. Ora deve nascere il partito della nazione. Sogno ancora che sia il Pdl. Altrimenti dovremo fondarlo noi». In effetti il documento finale chiude ogni porta. Non c’è posto per correnti o minoranze organizzate; «avanti con le cose da fare», meno tasse più autostrade. Il divorzio formale non è per stasera, si procede da separati in casa, pronti a dividersi al primo scontro, magari ancora sulla giustizia. Solo 11 votano contro il documento della maggioranza (poi 13 con le dichiarazioni di voto successive di Ronchi e della Angelilli; ndr); un astenuto, Beppe Pisanu. Domani il problema sarà capire quanti deputati seguiranno Fini, ma la vera questione è capire quanto seguito troverà nel Paese, quando il Sud pagherà il prezzo del federalismo fiscale. «Le Regionali le hai vinte ancora tu con il tuo carisma, ma fra tre anni le famiglie, le imprese, gli italiani ti presenteranno il conto» ammonisce Fini. E ancora: «Il Pdl com’era prima non c’è più». Su questo Berlusconi concorda. lui a far inserire nel documento finale la frase-chiave: «Il Pdl è un popolo, non un partito».
Aldo Cazzullo