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 2010  aprile 12 Lunedì calendario

2 articoli – BERSELLI: CRITICA E SENTIMENTO - Possiamo sostenerlo con una punta d’orgoglio: Edmondo Berselli era un giornalista

2 articoli – BERSELLI: CRITICA E SENTIMENTO - Possiamo sostenerlo con una punta d’orgoglio: Edmondo Berselli era un giornalista. E nel proporlo facciamo ricorso all’accezione più ampia e gratificante che si può dare a questa professione. Edmondo ci ha lasciato ieri nella sua città (Modena) e a togliercelo prematuramente (aveva 59 anni) è stato un tumore insistente, che se lo aveva costretto ad affrontare una lunga malattia non era però riuscito a piegare la sua grande passione per la scrittura. E negli ultimi mesi non riuscendo più ad accedere al computer Edmondo dettava i suoi articoli. Da giornalista ha lavorato per tante testate, dal «Resto del Carlino» dove ha iniziato al «Sole 24 Ore», fino all’«Espresso» e «Repubblica». Ma più che a un quotidiano o a un settimanale il suo nome resta legato indelebilmente all’avventura editoriale e politica del Mulino. Al piano terra di Strada Maggiore, a Bologna, Berselli ha diviso la stanza per anni con un accademico del prestigio di Nicola Matteucci e in casa editrice ha fatto praticamente di tutto. Dalla correzione di bozze alla direzione editoriale e della rivista (per sei anni). Il Mulino Edmondo non solo lo ha vissuto intensamente ma in qualche maniera lo ha anche decifrato, interpretato, messo in connessione con un pubblico più vasto. Il caso ci aveva messo del suo in questo sodalizio, con abile regia li aveva fatti nascere nello stesso anno, il 1951. Pochi lo ricordano ma l’atto di fondazione del Mulino fu nella buona sostanza una reazione al rischio che tra le élite laiche si rafforzasse lo spirito anticlericale mentre l’obiettivo dei Matteucci e dei Pedrazzi era un ricongiungimento delle due anime del progressismo, i cattolici non integralisti e i liberali non laicisti. Berselli è stato sempre fedele a questa sorta di mandato che interpretava però con la sua cifra intellettuale, quel disincanto che ricorre più di ogni altro tratto nei commossi ricordi degli amici. Persino gli Andreatta e i Prodi raccontati da Edmondo non sono mai stati delle icone, al contrario venivano fuori con i loro tic e le umane debolezze fino a sfiorare l’irriverenza con la trovata di quel fattore C («categoria mitologica, un mostro smisurato e stupefacente») che arrivava in soccorso del Professore ogni qual volta come premier incontrava degli ostacoli in apparenza insormontabili. La produzione libraria di Edmondo è quanto di più versatile un solo autore abbia potuto produrre. Libri spiazzanti, è stato detto. Con fulminei cambi di passo che mischiavano Karl Kraus e i Pooh, John Maynard Keynes e Bruno Lauzi fino a elevare Lucio Battisti al primo posto tra le cose da salvare nel patrimonio culturale degli italiani. Si va così dal festival di Sanremo al calcio bailado di Mariolino Corso, il mancino dell’Inter di Helenio Herrera che giocava da fermo, fino al futuro della sinistra (titolo Sinistrati, storia sentimentale di una catastrofe politica). Tutto narrato non con la supponenza del saggista-mosca-cocchiera ma ancora una volta in chiave giornalistica e come se ciascun libro servisse a comporre una storia degli italiani, quelli in carne e ossa. Quelli che dopo trenta anni ricordano tutte le parole delle canzoni della gioventù, quelli che sono capaci di parlar per ore del gol più bello che hanno visto allo stadio e di quello altrettanto unico guardato però in tivù. Quelli che come ha avuto modo di raccontare lo stesso Edmondo in un’intervista, «la mattina quando vanno al parco con il loro cane a Modena e vedono che è sporco, dicono che non va bene». E giudicano che vada ancora meno bene dire «sì, il parco è sporco, ma noi siamo per la società multiculturale, multietnica e benevolente». No, il parco deve essere pulito, non ci sono alternative o alibi. Alla sua labrador Berselli ha dedicato addirittura un intero libro ( Liù, biografia morale di un cane), con l’idea di scoprire che si deve scendere verso terra e trovare le soluzioni lì dove le stai cercando. E scoprirle solo abbaiando. Edmondo, pur disincantato e autoironico, all’Ulivo ci aveva creduto, sarà anche perché era emiliano come lui, quasi un compaesano. Il suo Ulivo non è stato mai un’alchimia fabbricata per produrre in laboratorio coalizioni vincenti ma un progetto di coesione sociale dal basso, se vogliamo una sorta di punto di arrivo della sua storia degli italiani, l’anima nazionale che si faceva format politico per dispiegare le sue potenzialità (e non per conquistare i palazzi d’inverno). E se c’è, dunque, un appuntamento del Mulino che vale la pena di ricordare in chiave di etimologia culturale è quella lecture del Mulino chiesta a Robert Putnam, lo storico americano che aveva lavorato in profondità per capire le radici dello spirito civico emiliano e sottolinearne le connessioni con la cultura della coesione. Edmondo l’esperienza ulivista la condivideva e la raccontava amodo suo senza mai ricorrere alla perorazione, tanto meno al comizio persuasivo. Anzi. Presentando Sinistrati, ad esempio, ebbe a dire: «A me piace tutto ciò che è popolare, come il cinema e il calcio, e sono convinto che difficilmente il popolo sbagli. Invece la sinistra non pensa al popolo, ma ai miti popolari. Cioè a Benigni e a Baricco, ai totem culturali delle professoresse democratiche». Battute così fanno venire in mente i motti di altri due spiriti liberi, Ennio Flaiano e Altan. E del vignettista che con lui ha lavorato per l’«Espresso», a Edmondo piaceva sottolineare la capacità di cogliere nell’aria «il senso di minoranza della sinistra chiusa in se stessa». Ma aggiungeva: «Per me nessuna sinistra ha senso se si autocondanna a restare minoranza. Detesto quelli che sanno individuare sempre nuovi problemi. Mi piacciono le soluzioni». Dario Di Vico «MI DISSE: PREGA!E IO CAPII. IL SUO ULTIMO LIBRO SUI POVERI» - Era il venerdì santo del 2009. Un sms di Edmondo Berselli: «Sei lontano?» – «In Asia». Un nuovo sms: «Prega». La cosa mi sorprese, mi preoccupò. Conoscevo Eddy – era così per gli amici da sempre – dal 1990, quando il Mulino me lo diede come controparte nell’edizione della storia del Concilio Vaticano II. E allora, anziché essere controparti, eravamo amici, testimoni dei passaggi e collaudatori degli architravi della vita (per lui uno solo: quello costituito dalla «sua ragazza» e sposa, Marzia). In questa frequentazione professionale e privata, avevo apprezzato la sua ironia graffiante, il rigore colto, l’antisnobismo metodico e anche la sua sensibilità religiosa. Ma come tutto ciò che riguardava la sfera più palpitante dell’esistenza, quella fede Eddy la teneva al riparo da sguardi indiscreti: e nella grande impudicizia dilagante anche questo lo staccava dallo schifo che per decenza chiamiamo media. Che chiedesse una preghiera era un eccesso di stima quanto al destinatario, e molto insolito quanto al mittente. Di lì a pochi giorni avrei capito il perché. Una malattia dinamica quanto la sua vittima gli aveva tolto, nel volgere di poche ore, la possibilità di camminare: l’aveva inchiodato a un letto e a una speranza esile, mettendolo alla prova per trecentosessantacinque giorni. E lui in modo lucido e beffardo, l’aveva dribblata nell’altalena degli stati d’animo: consentendole solo in questi ultimi dieci giorni di impedirgli i suoi impegni professionali e la coltivazione dei legami d’amicizia con cui impreziosiva la vita di tanti. Poi, ieri, la redditio e la resa: lasciando negli occhi dei suoi il senso d’aver visto dal vivo uno dei versi estremi di Mario Luzi: perché può essere «grazia anche l’implorare a mani giunte,/ stare a labbra serrate, ad occhi bassi/ come chi aspetta la sentenza», e non darsi per vinti, nemmeno da vinti. Ai suoi lettori e ai suoi amici resta un’opera e uno stile. Il suo gusto ostinato per le metafore intentate, capaci di denudare le spocchiosità politologico-storicistiche dei «venerati maestri» di quest’Italia: così il calcio diventa un modo di descrivere la crisi dei partiti, le canzoni (visitate prima in un libro e poi nella rock opera scritta per e con Shel Shapiro) sanno dire la storia di una generazione, e i labrador – i nostri labrador – unmodo per cantare una delicata serenata alla vita. Ma toglierebbe qualcosa ad Eddy chi pensasse che di questo si accontentava o si sarebbe accontentato: nel corpo a corpo con la malattia ha fatto in tempo a scrivere un saggio dotto e raffinatissimo sull’economia sociale di mercato, che sbeffeggia le letture moralistiche della crisi e della sua terapia. Uscirà nelle Vele dell’Einaudi e non si chiamerà, come aveva pensato in un primo momento, mirando sotto la cintola dei lettori, Più poveri. Un titolo più sereno, L’economia giusta, porterà l’estrema e caparbia riaffermazione della forza intellettuale di quest’uomo al quale in troppi – nei giornali, nell’editoria, nella politica, nell’accademia – hanno preferito mezze tacche, servi viziosi, gatte morte o figli invorniti di potentucci qualunque. Peccato: non ci ha rimesso lui, ci ha rimesso questo Paese. E il danno è oggi irreversibile. Alberto Melloni