Michele Masneri, Il Riformista 8/4/2010, 8 aprile 2010
I MAGNIFICI SETTE CHE FANNO AFFARI CON I CARBURANTI
Non si ferma la polemica sull’aumento dei prezzi dei carburanti: ieri le associazioni dei consumatori hanno chiesto al Governo di ridurre le accise, mentre il sottosegretario allo Sviluppo Economico, Stefano Saglia, ha aperto all’ipotesi di nuove misure (tra cui una sterilizzazione dell’Iva, mentre la riduzione delle accise viene considerata irricevibile per l’impatto che avrebbe sui conti pubblici). Se i consumatori continuano il loro pressing sull’Unione Petrolifera, il suo leader Pasquale De Vita, lamentatosi per le troppe polemiche col Corriere della Sera, si è beccato una risposta micidiale da Ferruccio de Bortoli («finché c’è De Vita non c’è speranza»).
Certo il problema delle asimmetrie nei prezzi dei carburanti rimane. Come ci spiega Enrico D’Elia, senior economist dell’Isae, tuttavia, intervenire sulla accisa – la quota fissa, attualmente a 56 centesimi al litro per la benzina e 43 centesimi per il gasolio, che va nelle casse statali – «non è certo l’uovo di colombo, poiché essa anzi agisce da calmiere, stabilizzando i prezzi». Così come sembra del tutto impercorribile l’idea di diminuire l’Iva (che si somma all’accisa), essendo questa «decisa a livello europeo, oltre che una delle voci preponderanti dei bilanci Ue». Il problema del costo dei carburanti in Italia e dei rincari asimmetrici secondo D’Elia dipende semmai da alcune tipicità del mercato italiano. Da una parte maggiori costi di produzione dei carburanti (di circa il 5-7 per cento), a causa dell’energia più cara e degli impianti meno efficienti. Dall’altra, soprattutto, pesa la struttura oligopolistica del mercato, in cui 7 gruppi si spartiscono il mercato essendo al contempo produttori e distributori.
Ma chi sono i sette «signori della benzina» italiani, quei petrolieri su cui due anni fa si era scagliata l’ira - oggi sopita - di Tremonti? Secondo le statistiche dell’Unione petrolifera (gennaio 2010), il player numero uno del settore è Agip, il gruppo del mitico cane a sei zampe fondato nel 1926 dal Regno d’Italia, per volere del conte Giuseppe Volpi di Misurata, ministro delle Finanze. Passato nel 1946 all’Eni, oggi Agip, rinominata divisione Refining & Marketing di Eni, ha una leadership quotata al 31,7 per cento del mercato italiano. Alle sue spalle si piazza Esso Italia, parte del colosso ExxonMobil, e uno dei marchi più presenti sul nostro territorio, dove opera da più di 120 anni, con una quota di mercato del 12,7 per cento e 2.900 punti vendita. Al terzo posto c’è una «new entry» generata da un recente matrimonio italo-francese, quello tra Total Italia e la genovese Erg, che sommando le due quote di mercato arriva al 12,6 per cento. Alleanza siglata a febbraio 2010, che prevede una joint venture in cui Erg avrà la maggioranza, e che potrà contare su 3.400 punti di servizio, arrivando ad essere il terzo player del mercato. Una strategia, quella delle alleanze, a cui il gruppo genovese guidato da Edoardo Garrone, terza generazione, vice presidente di Confindustria al fianco di Emma Marcegaglia, ha sempre guardato con interesse. Già nel 1997 infatti era stata presa la decisione di allearsi con Agip, acquisendone 100 punti vendita in cambio dell’ingresso della società di San Donato Milanese nel capitale. I Garrone, patron della Sampdoria, rappresentano non solo una delle poche dynasty italiane con strategie globali ma anche un esempio di un legame molto forte in Italia tra due mondi, quello del greggio e quello del pallone.
Al quarto posto del mercato c’è Q8, ramo del colosso Kuwait Petroleum Company, che fa capo all’omonimo emirato del Golfo, con l’8,2 per cento di mercato. Al quinto però ecco un’altra italiana, la Api (Anonima Italiana Petroli), di proprietà dei marchigiani-romani Brachetti Peretti. Base e cuore finanziario a Corso Italia, accanto alla Cgil, oggi la società è guidata da Ugo, terza generazione, e rappresenta una quota di mercato del 7 per cento, grazie all’escalation degli ultimi anni culminata nel 2005 con l’acquisto della rete di distribuzione di Ip (Italiana Petroli) che ha permesso di incrementare la sua presenza da 1.650 a 4.500 stazioni di servizio. Al sesto posto c’è invece un gruppo straniero ma con grandi legami con l’Italia, Tamoil: ramo di un colosso fondato nel 1965 dal finanziere libanese Roger Tamraz nel 1965, oggi controllata dalla Libia del colonnello Gheddafi, e arrivata in Italia nel 1983 acquisendo la rete di distribuzione della Amoco. Tamoil è un nome familiare per gli italiani e con radici consolidate: Roger Tamraz fu il primo marito di una donna molto in vista nella capitale, Marisela Federici; mentre la sponsorizzazione Tamoil alla Juventus (110 milioni di euro) ha costituito il più grande contratto di questo tipo mai realizzato nel calcio europeo. Oggi Tamoil controlla una quota di mercato in Italia del 6,2 per cento con 2.100 stazioni di servizio. Infine, al settimo posto, Shell Italia, con una quota di mercato del 4,4 per cento.
Non figurano in questa classifica due marchi molto conosciuti, anche perché legati a filo doppio col calcio: la Saras dei Moratti, che non opera direttamente nella vendita retail in Italia (ma è attiva in Spagna) che pure rappresenta il 15 per cento dell’intera raffinazione italiana, con 300 mila barili al giorno, ed è quotata al FtSe-Mib. Né la ItalPetroli, società capitolina dei Sensi, fondata negli anni Sessanta da Franco e oggi legata alle sorti dell’indebitamento con Unicredit, al capitano Totti e alla As Roma. Non la produzione petrolifera, ma solo lo stoccaggio, è il core business dell’impero (traballante) dei Sensi.