Lucio Caracciolo, L’espresso 8/4/2010, 8 aprile 2010
MOSCA SOTTO SCACCO
Il Caucaso è da sempre il termometro della salute geopolitica della Russia. Le instabilità o le guerre caucasiche segnalano immancabilmente una crisi complessiva del colosso, e quindi del suo vertice politico. presto per valutare le conseguenze dell’attentato di lunedì 29 marzo alla metropolitana di Mosca (stazioni della Lubjanka e del Parco della Cultura), che hanno gettato nell’angoscia la popolazione della metropoli e agitato i sonni nei palazzi del potere russo. Ma se il marchio è caucasico, come pare, saranno comunque conseguenze profonde.
Finora tutto indica infatti la pista caucasica, o meglio nord caucasica. Non è la prima volta che il terrorismo ceceno, daghestano o comunque riconducibile a quella regione cui la propaganda del Cremlino tenta inutilmente da anni di attribuire un’immagine pacificata, colpisce a Mosca. Le ’fidanzate di Allah’ - donne kamikaze addestrate nei campi jihadisti - che si sarebbero fatte esplodere nel metrò hanno già fatto la loro sinistra comparsa in diversi scenari, Beslan incluso. Non sono poi mancati da parte della galassia del terrorismo islamista tentativi più o meno credibili di autoattribuirsi l’organizzazione degli attentati di Mosca.
Il controllo dei media e l’opacità della burocrazia e della magistratura russa impediranno con ogni probabilità di accertare i fatti. Mentre alimenteranno il gossip politico, uno degli sport preferiti dai russi e, ancor più, dai russologi o cremlinologi che qualche anno fa avevano temuto di finire in naftalina causa decesso dell’Urss. E siccome in Russia - come altrove - si tende talvolta a immaginare negli attentati il coinvolgimento di questo o quello spezzone ’impazzito’ (o fin troppo razionale) dei servizi segreti, anche in questo caso non potevano mancare le teorie del complotto. Le quali vertono in genere sul fatidico cui prodest, quasi che un qualsiasi evento non possa scaturire che dal calcolo freddo dei costi e dei benefici. Come se la storia non avesse abbondantemente dimostrato che perfino i più astuti capi politici non sempre si lasciano guidare dal metodo razionale.
Con questa premessa, e con tutto lo scetticismo che meritano simili esercizi, gli amanti della complottologia si dividono intorno alle conseguenze che gli attentati di Mosca potranno avere sui rapporti di forza nello strano consolato Medvedev-Putin che da un paio d’anni regge la Federazione Russa. Tutti vedono che la diarchia scricchiola. Tanto più quanto più si mostra unita. Voluta da Putin nel probabile intento di farsi scaldare la sedia da un amico fidato, in attesa di rioccuparla al prossimo giro, la coppia che governa la ’verticale del potere’ appare da tempo in sofferenza. Alcuni pensano sia solo una copertura del permanente accordo, che affida a Putin le vere leve di comando e a Medvedev il ruolo del pallido modernizzatore, specchietto per le allodole indigene e soprattutto occidentali.
Le manifestazioni organizzate la settimana scorsa dall’opposizione in 50 città lungo gli 11 fusi orari della Russia, per quanto non propriamente oceaniche, indicano comunque la persistente sofferenza di parte della popolazione per la crisi economica e per le inefficienze del potere. Poca cosa, sufficiente però a irritare Putin e a mettere ancora più in risalto la scarsa incisività di Medvedev, apparentemente prigioniero degli apparati di sicurezza su cui l’attuale primo ministro ha sempre edificato il suo dominio.
Così alcuni analisti occidentali hanno visto nelle bombe al metrò di Mosca, di cui una molto simbolica presso il palazzo della Lubjanka, sede storica del Kgb, oggi Fsb, un avvertimento a Putin. Lo scopo: evidenziare come il controllo del premier sia molto meno ferreo di quanto la gente immagini e lui lasci trasparire, tanto è vero che i moscoviti non possono più girare tranquillamente per strada. In questo caso, dietro i ceceni vi sarebbe la rete degli uomini di Medvedev. Per la stessa ragione - solo a segno rovesciato - altri attribuiscono a Putin la manipolazione dei jihadisti caucasici onde scaricare sul presidente la responsabilità della crisi e dell’insicurezza. E per giustificare un giro di vite militare contro i ribelli caucasici, anche per ripulire il terreno intorno a Sochi, dove nel 2014 si svolgeranno le Olimpiadi invernali, che Putin considera i ’suoi’ Giochi.
Quale che sia il grado di attendibilità di queste speculazioni, nessuna prova può finora sostanziarle. Ed è molto probabile che un velo di mistero continuerà ad avvolgere i fatti del 29 marzo, almeno per il futuro prevedibile.
Ma lasciando la cremlinologia, il senso profondo dell’attacco terroristico ci riporta alla radice geopolitica dei conflitti caucasici, da quelli latenti sul versante meridionale (Georgia, Nagorno Karabakh) alle tensioni che investono direttamente il territorio della Federazione, sul fronte nord: Cecenia, Daghestan, Inguscezia eccetera. Essendo peraltro le contese sui due lati del displuvio da sempre strettamente correlati.
Nell’ambito russo del Caucaso si osservano le mosse di una irriducibile galassia jihadista, baldanzosa malgrado i colpi subiti negli ultimi anni. I legami fra questi gruppi e i loro confratelli centroasiatici sono l’incubo di Mosca. Se tutta la fascia più estrema dell’islamismo russo, o che batte alle porte della Russia, si dovesse incendiare, la stabilità della Federazione sarebbe messa in discussione. Perché i fanatici musulmani non si pongono limiti territoriali nel loro campo d’azione, come le bombe di Mosca ci ricordano.
Sotto questo profilo Putin vede anche la guerra afghana. Per lui, la campagna americana e atlantica non è che la prosecuzione con altri mezzi di quella sovietica (1979-1989). Si tratta di sterilizzare le frontiere dell’impero contro il virus islamista, che potrebbe attecchire fra i milioni di musulmani che abitano le regioni meridionali della Federazione. Per questo Putin guarda con preoccupazione all’apparente disimpegno Usa dall’Afghanistan, che minaccia di aprire la strada a una nuova trionfale avanzata dei jihadisti locali in Asia centrale e all’interno della Russia stessa. Anche per questo - anzi, soprattutto per questo - a nessuno più che al leader russo dispiace la prospettiva di un’America in ripiegamento dal fronte centro-asiatico, proprio lì dove i nemici storici della Russia - gli islamisti, ma anche i vicini cinesi - paiono minacciarne l’integrità.