varie, 8 aprile 2010
ROBERTA PER GIORGIO - I
medici legali hanno detto che il decesso di Stefano Cucchi, il geometra di 31 anni morto dopo 6 giorni dall’arresto, il 22 ottobre scorso, all’Ospedale Sandro Pertini di Roma, non è avvenuto per disidratazione, ma perché il ragazzo, pur in condizioni cliniche difficili, non è stato curato. Paolo Arbarello, direttore dell’istituto di Medicina legale dell’università La Sapienza, a capo del pool di esperti che ha concluso le indagini e consegnato il fascicolo di 145 pagine ai due magistrati che indagano sul caso: «La vita di Cucchi, con una terapia idonea, si sarebbe potuta salvare».
Ma in che cosa consiste questo caso Cucchi?
Stefano Cucchi, 31 anni, figlio di Giovanni e Rita, un diploma da geometra, 43 chili di peso per un metro e 76 d’altezza, alle spalle tre anni di comunità per problemi di droga, all’una e mezzo di notte del 16 ottobre viene fermato dai carabinieri con 20 grammi di hashish, poca cocaina e quattro pasticche di ecstasy (secondo il padre si trattava in realtà ”di Rivotril”, farmaco salvavita contro l’epilessia prescrittogli dal medico). Poiché il quantitativo è superiore alla dose per consumo personale, l’accusa è di spaccio. Il giorno seguente si svolge il processo per direttissima. Nel tribunale di piazzale Clodio ad attendere Stefano c’è il padre, che racconterà: « Noto che ha gli occhi lividi, due borse nere sotto le palpebre, e il viso gonfio. Però cammina sulle sue gambe». Il giudice si accorge di quegli strani segni sul volto di Stefano, così dispone che il medico del tribunale lo visiti. Il referto parla di «lesioni ecchidomiche bilaterali in regione palpebrale inferiore» e «lesioni alla regione sacrale e agli arti inferiori». Il magistrato convalida il fermo, Stefano viene portato a Regina Coeli. Lì, il mattino dopo, viene visitato dal dottor Petillo. Il referto: «Ecchimosi sacrale coccigea, tumefazione del volto, algìa della deambulazione». Che è successo durante la notte? Stefano è stato pestato o è caduto? Questo ancora non s’è capito, fatto sta che il pomeriggio del 17 ottobre viene trasferito nel reparto di medicina penitenziaria del Sandro Pertini, diretto dal dottor Aldo Fierro: «Non ha mai accennato a un pestaggio subito. Però ha continuato fino alla fine a rifiutare acqua e cibo, accettava solo le medicine per curarsi l’epilessia». Dopo 4 giorni passati digiunando senza mai vedere i genitori, bloccati alla porta dai secondini, Stefano è sempre più debole. Alle 6.20 di giovedì 22 ottobre muore. La madre Rita lo apprende al telefono dal carabiniere che le chiede di nominare un consulente per l’autopsia. La settimana successiva i genitori rendono pubbliche le immagini scattate al cadavere di Stefano. Mostrano il corpo estremamente esile (dai 43 chili del fermo era passato a 37), il volto devastato, l’occhio destro rientrato nell’orbita, l’arcata sopraccigliare sinistra gonfia e la mascella destra con un solco verticale, segno di una frattura. Il 17 marzo arriva la relazione della commissione parlamentare d’inchiesta: Cucchi ha subìto delle lesioni, ma la morte è stata causata dalla disidratazione e dall’eccessiva perdita di peso (10 chili in sei giorni) «legata alla volontà di Cucchi di richiamare su di sé l’attenzione dei suoi legali e del mondo esterno». Giovedì 8 aprile Paolo Arbarello, direttore dell’istituto di Medicina legale dell’università La Sapienza, conferma che Cucchi non è morto per le lesioni subite («Non sta a noi stabilire da cosa siano state provocate, ma comunque non sono state la causa della morte») ma smentisce la faccenda della disidratazione: «La sera prima del decesso aveva assunto tre bicchieri d’acqua ed erano stati fatti dei prelievi di urina da cui è emersa una corretta funzionalità renale». Cucchi è morto perché, nonostante un quadro clinico molto complicato (riportava una «fortissima cachessia», vale a dire era magrissimo e in uno stato vicino al malnutrizione; una disfunzione epato-cancreatica; una grave ipoglicemia; uno squilibrio elettrolitico; una «rilevante bradicardia», vale a dire un battito del cuore molto lento, intorno alle 40 pulsazioni al minuto) non è stato curato: «Il quadro clinico del giovane all’ingresso all’ospedale Pertini (nel reparto dedicato ai detenuti ndr) era fortemente compromesso e non permetteva la degenza nel reparto detentivo. Cucchi avrebbe dovuto essere stato ricoverato in un reparto per acuti». «Abbiamo rilevato una carenza assistenziale. Abbiamo un dubbio sul perché un paziente in quelle condizioni sia stato avviato a quel reparto. Andavano impostate diversamente le terapie. Ci sono state omissioni e negligenze […] Se poi i medici hanno fatto bene o no, sulla base delle informazioni che avevano e dei protocolli, a fare quello che hanno fatto, è una valutazione che spetta al magistrato».
Stefano Cucchi, insomma, in carcere sarà anche stato pestato, ma non l’hanno ammazzato le botte. Se non sbaglio invece, nella morte di Giuseppe Uva, il pestaggio in caserma c’entra e come…
Giuseppe Uva, 43 anni, fermato ubriaco alle 3 del mattino il 14 giugno 2008, in effetti morì in ospedale dopo il pestaggio subito, da parte di poliziotti e carabinieri, nella caserma di via Saffi a Varese. L’amico Alberto Biggiogero, portato in caserma con Uva, raccontò di averlo sentito urlare atrocemente per tre ore, tanto che chiamò il 118 (circostanza che ha trovato conferma dalla registrazione della telefonata) sussurrando all’operatore: «Stanno massacrando un ragazzo». L’operatore chiamò subito dopo in caserma chiedendo se doveva inviare davvero l’autoambulanza, ma un militare gli rispose: «No guardi, sono due ubriachi che abbiamo qui, ora gli togliamo i cellulari. Se abbiamo bisogno vi chiamiamo noi». Qualche giorno fa lo stesso Biggiogero ha tirato fuori un particolare ancora più inquietante: Uva aveva avuto una relazione con la moglie di un carabiniere che aveva promesso di fargliela pagare. Questo carabiniere, la sera del fermo, si sarebbe avvicinato a loro «con uno sguardo stravolto urlando ”Uva, cercavo proprio te, questa notte te la faccio pagare!”», quindi avrebbe cominciato a spintonarlo e picchiarlo per poi spingerlo insieme con altri colleghi in una delle volanti accorse. Insomma, stando alle parole del testimone, il movente del pestaggio continuato in caserma e finito in tragedia sarebbe nella rabbia del militare cornificato, che avrebbe poi coinvolto nella vendetta altri suoi colleghi. Oltretutto la descrizione del corpo martoriato di Uva, in particolare le tracce di sangue dietro ai pantaloni, la scomparsa degli slip, il sangue attorno ai testicoli e all’ano, fanno pensare a sevizie di natura sessuale compatibili con la storia delle corna.
Se questa è la verità, stiamo messi proprio male. E magari i casi Cucchi e Uva sono solo la punta di un iceberg: chissà quante volte si è parlato di incidente o suicidio per gente che invece era stata ammazzata di botte in caserma o in galera.
Secondo l’associazione «Ristretti orizzonti», nelle carceri italiane muoiono in media 150 detenuti l’anno: un terzo per suicidio, un terzo per «cause naturali» e la restante parte per «cause da accertare». In queste ultime situazioni viene aperta un’inchiesta giudiziaria. In base ai dati del dossier «Morire di carcere», elaborato dalla stessa associazione, solo nel 2009 i casi da accertare sono 16, a fronte di 148 morti. E, a spulciare in quei dossier, si trovano morti «per infarto» con la testa spaccata e detenuti «suicidi» con il corpo ricoperto da lividi. «La morte di Stefano Cucchi», hanno detto i curatori del dossier, «ha avuto l’effetto di scoperchiare il calderone infernale delle morti in carcere».
Però anche quelli che si suicidano sul serio sono tanti.
Proprio ieri (giovedì 8 aprile, ndr) un napoletano s’è impiccato in cella con una calzamaglia. Era rinchiuso nella Casa Circondariale di Benevento dove si trovano, come ha fatto notare Donato Capace, segretario del Sappe (il sindacato autonomo di polizia penitenziaria) «quasi 400 detenuti a fronte dei circa 240 posti letto regolamentari». E col suo suicidio siamo già al diciottesimo morto in carcere dall’inizio del 2010. Non solo: con 1.021 casi accertati dal 1990 a oggi, in carcere ci si suicida ventuno volte più che fuori. A rendere intollerabile la vita in galera c’è anche il fatto che le 208 carceri italiane scoppiano. Secondo l’«Associazione Antigone» i detenuti delle 208 prigioni italiane sono circa 65 mila, a fronte di 43 mila posti. Ci sono insomma 146 detenuti ogni 100 posti letto, mentre la media europea è di circa 97. In media ogni recluso ha a disposizione uno spazio di tre metri quadrati: secondo gli standard europei, invece, ne dovrebbe avere sette.
E il Governo che fa?
A gennaio, nelle sovraffollate carceri italiane, il Governo ha dichiarato lo stato di emergenza: fino al 31 dicembre 2010 il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, avrà poteri analoghi a quelli del responsabile della Protezione Civile Guido Bertolaso nella gestione del dopo terremoto all’Aquila. Ed è proprio il «modello Abruzzo» quello che il governo intende seguire per costruire, entro il 2010, 47 nuovi padiglioni e 18 nuove carceri «flessibili» (sul modello delle case del post-terremoto all’Aquila, saranno di prima accoglienza o destinate a detenuti con pene lievi) che assieme ad altre strutture penitenziarie (sette probabilmente) porteranno, entro il 2012, alla creazione di 21.709 nuovi posti elevando la capienza massima a 80mila unità. Grazie ai maggiori poteri che gli sono stati attribuiti Ionta potrà derogare alle consuete procedure, velocizzandole, e semplificando le gare d’appalto (anche attraverso la segretazione). Altre novità: la possibilità per gli incensurati accusati di aver commesso reati fino a tre anni di pena di vedere sospeso il processo a loro carico a patto però che compiano lavori di pubblica utilità; la detenzione domiciliare per chi debba scontare un anno di pena residua (se non condannato per reati gravi); l’assunzione di 2mila agenti penitenziari. Non solo: a febbraio Fincantieri ha presentato il progetto, commissionato dal Ministero della Giustizia, per le "carceri galleggianti", imbarcazioni penitenziarie da attraccare nei porti meno strategici con a bordo fra i 600 e gli 800 detenuti. Le piattaforme potrebbero essere attraccate, secondo un dossier del Governo risalente a maggio 2009, a Genova, Livorno, Civitavecchia, Napoli, Gioia Tauro, Palermo, Bari e Ravenna. E’ stato presentato un plastico con 320 celle per 640 detenuti: 2 persone in 14 metri quadri, un grosso miglioramento, in effetti, rispetto alle attuali condizioni. Il tutto su piattaforme di nuova costruzione, e non su strutture riattate come avvenuto all’estero.
Maestose le dimensioni proposte: 126 metri di lunghezza, 33 di larghezza, quasi 35 di altezza per un totale di 5mila metri quadri di area detentiva più altri 3900 dedicati alle altre aree. Una cubatura totale di 83mila metri cubi e una stazza lorda di 24mila 8cento. Unico limite la posizione: non c’è ancora la possibilità di andare in alto mare, quindi niente "galere" come ai tempi degli antichi romani, le imbarcazioni sono senza motore e collegate alle banchine. L’idea delle carceri galleggianti piace al Sidipe, sindacato dei direttori e dirigenti penitenziari («non è la risposta ai problemi del sovraffollamento, ma è senz’altro un positivo rimedio che serve per trovare il tempo di realizzare nuovi istituti a terra») mentre il sindaco di Genova non ne vuole sapere: «Sono convinto che Genova non abbia alcun bisogno di carceri galleggianti, piuttosto serve una nuova cittadella penitenziaria sulla terra ferma in aggiunta alle carceri di Marassi e Pontedecimo. Mi sembra una soluzione stravagante rispetto a un problema serio».
Ma a rendere interessante, per lo Stato, l’affare, è la rapidità dei tempi: un carcere nuovo chiavi in mano in 24 mesi, flessibile e riutilizzabile per altri scopi. La spesa totale è ingente: 90 milioni di euro. Ma c’è da dire che Fincantieri appartiene allo Stato italiano.