Stefano Folli, Il Sole-24 Ore 31/3/2010;, 31 marzo 2010
PER BERSANI IL QUADRO NON È FOSCO, MA LA LINEA ATTENDISTA È DEBOLE
Un ministro in carica, Renato Brunetta, che viene battuto al primo turno a Venezia dal candidato sindaco del centrosinistra e mette sotto accusa la Lega, da cui non gli sono arrivati i voti previsti, può essere motivo di consolazione per Bersani in queste ore amare. Non è molto, ma è in fondo l’unico argomento a sostegno della tesi (e della speranza) coltivata dal Pd, secondo cui Berlusconi e Bossi sono destinati a scontrarsi, o almeno a sperimentare inediti screzi nel loro rapporto.
L’ipotesi non si può escludere. La Lega ha raggiunto un peso politico senza precedenti e questo determina una pressione considerevole sugli equilibri di maggioranza. L’impressione è che nulla sarà più come prima. Come dice il neo-governatore del Veneto, Zaia,«farò della mia regione la Baviera d’Italia ». il messaggio federalista che prende forma in concreto. Difficile credere che un passaggio così complesso avvenga senza forti tensioni politiche.
Il problema è che l’opposizione,in questo caso il Pd di Bersani, non ha ancora deciso come affrontare il dossier Lega nella nuova realtà post-elettorale. Il segretario non è stato molto preciso al riguardo, nella conferenza stampa ottimista in cui ha offerto un’immagine un po’ edulcorata dei risultati ottenuti sul campo. Tutto sommato il Pd ha retto il colpo, sembra dire Bersani: poteva andare peggio. Le sconfitte in Piemonte e nel Lazio sono avvenute per pochi voti. Mercedes Bresso, in particolare, è stata fermata dal «fuoco amico», ossia dalla lista di disturbo degli amici di Beppe Grillo. E poi non è vero che il Pd sia rimasto confinato nel ridotto degli Appennini, dato che ha conquistato la Liguria, la Basilicata e la Puglia, tutte al di fuori della «zona rossa» tradizionale. Pazienza se a Bari ha vinto Nichi Vendola, che non è proprio il candidato della segreteria. E pazienza se la gran parte del Pil nazionale scaturisce dalle regioni governate dal centrodestra.
Quel che preme a Bersani è disinnescare la polemica interna, il nervosismo della minoranza di Veltroni e Franceschini. Che riesca nell’obiettivo non è scontato, visto che gli amici del segretario e i suoi avversari giudicano l’esito del voto in modo del tutto opposto: quasi una vittoria, secondo Bersani; una pesante sconfitta, a parere degli oppositori. Di sicuro il segretario non può fermarsi all’analisi di ieri pomeriggio. C’è da definire una rotta, fissare un traguardo, dare qualche indicazione certa sul sistema di alleanze che si vuole costruire. Ancora con Casini? Con Di Pietro? Con tutte e due? Eterne domande che non trovano mai una risposta soddisfacente.
Nel frattempo cresce la fronda della protesta. Il movimento dei «grillini» rappresenta un’altra spina nel fianco. come se Di Pietro stesse producendo per clonazione tanti figlioletti, ognuno dei quali in grado di sottrarre voti preziosi al Pd (e magari allo stesso «padre» dell’Italia dei Valori). Tutto s’intreccia e in attesa che Bersani decida per il meglio, il partito fa in tempo a svuotarsi e a farsi mettere in angolo.
Il fatto di resistere nei vecchi fortini in attesa di tempi migliori, dice Arturo Parisi, non garantisce che Bersani sia in grado di passare all’offensiva per recuperare consensi e spazi di manovra alla destra. In realtà nessuno sa cosa fare. Si attendono le mosse di Berlusconi e di Bossi sulle riforme. E sotto sotto si spera in Fini, nella sua capacità di incalzare il presidente del Consiglio. Il gioco in difesa continua.