Luigi Spinola, Il Riformista 24/3/2010, 24 marzo 2010
OBAMA FIRMA E PUNTA ALLO SCONTRO CON IL GOP
Per firmare la legge che istituiva Medicare, la copertura sanitaria per gli anziani d’America, Lyndon Johnson volle accanto a se Harry Truman. Era il 30 luglio del 1965. Quella riforma il presidente Harry Truman l’aveva promessa subito dopo la fine della guerra, raccogliendo il testimone da Franklyn Delano Roosevelt, a cui il Congresso dieci anni prima aveva detto ”no”. Anche Harry Truman fallì. E all’anziano eroe della Guerra Fredda, il presidente della ”Great Society” consegnò la prima tessera di Medicare.
Per porre la sua firma sull’Affordable Health Care for America Act inseguito per tutto il novecento, Obama ha chiamato ieri sul podio della East Room della Casa Bianca due signore e un bambino. Vicky Kennedy, la vedova di Ted, che per quella riforma ha lottato per quarant’anni nell’aula del Senato. Connie Anderson, la sorella di Natoma Canfield, la malata di leucemia che tempo fa ha scritto una lettera al presidente raccontando la sua lotta per la sopravvivenza. E Marcelas Owens, un bambino di undici anni orfano di madre, morta di polmonite dopo che le era stata negata l’assicurazione sanitaria. Ieri Connie e Marcelas erano lì per conto di quei trentadue milioni di americani ai quali la firma di Obama darà qualche speranza in più.
La Storia si è compiuta, ma la partita politica su ObamaCare è ancora aperta, più incattivita che mai. La Storia forse sta dalla parte di Obama, gli ultimi sondaggi resi noti dalla Cnn lo bocciano. Il 51% degli elettori disapprova il suo operato, percentuale che sale al 58% per quanto riguarda la sanità. Per questo il presidente guiderà la macchina democrat on the road - prima tappa domani nell’Iowa - per vendere agli americani più diffidenti la riforma appena votata. In palio c’è il controllo del Congresso prima (2010), la poltrona presidenziale poi. Ma la strada ora potrebbe essere in discesa.
I democrat in primis possono sfruttare la tempistica dell’applicazione della riforma. Il dispiegamento delle diverse fasi è stato abilmente programmato in modo da offrire i primi, popolari benefici - come l’estensione della copertura dei farmaci per i più anziani - alla vigilia delle elezioni di medio termine. E far pagare i costi solo dopo l’eventuale rielezione di Obama.
Ma più del contenuto della riforma, ora conta il fatto stesso di averla portata al traguardo. Come ha ammesso il braccio destro del presidente Rahm Emanuel «il test principale alla fine non era sulla policy prescelta. Ma semplicemente: ce la fate a ottenere il risultato?». Anche da un punto di vista elettorale, spiegava ieri il mago dei sondaggi Stanley Greenberg ai lettori del New York Times, banalmente, «per i democrat, una vittoria è una vittoria». Perché gli americani più ancora di un potere che non condividono, disprezzano l’incapacità di esercitare il potere. E produrre risultati.
In questo senso per i repubblicani la partita si è complicata. Hanno puntato tutto sull’opposizione senza se e senza ma al programma di riforma obamiano, scommettendo sul suo fallimento. Tutti insieme, senza una sola defezione, hanno perso. E nell’ultimo week-end di passione a Capitol Hill, perdendo hanno rischiato di perdersi, mescolandosi al popolo del Tea Party che dava del negro all’eroe dei diritti civili John Lewis, del frocio al deputato bostoniano Barney Frank e sputava sul rappresentante del Montana Emanuel Clever.
Hanno perso ma non si sono arresi. Da ieri la lotta si è trasferita nell’aula del Senato dove tenteranno in ogni modo, con una raffica di emendamenti, di far deragliare il pacchetto di ritocchi alla riforma. Intanto, in diversi Stati d’America, procuratori generali conservatori hanno acceso focolai di resistenza dichiarando di volerne denunciare l’incostituzionalità. E la promessa di ripudiare la legge potrebbe diventare il manifesto della campagna elettorale del Gop per il rinnovo del Congresso. Ma questo cumulo di iniziative produce soltanto un ”no”. Senza gettare sul piatto una sola proposta alternativa alla deprecata Obamacare.
Se n’è accorto anche un neo-conservatore di talento come David Frum, l’uomo che scriveva i discorsi del presidente George W. Bush. Ai suoi tempi era la destra a sprizzare energie intellettuali e politiche, mentre i democrat si arroccavano in sterili manovre ostruzionistiche. Ora sono i repubblicani ad aver perso «l’occasione di poter influenzare la più importante legge di riforma sociale dagli anni 60 a oggi.» Dove sono le idee dei repubblicani capaci di vincere la nuova guerra culturale in un America più che mai polarizzata? A quali leader si dovrebbero affidare gli elettori conservatori? La crociata ideologica contro l’incubo del Big Government socialisteggiante potrebbe non bastare. Tanto più se non dovessero avverarsi le fosche profezie evocate dalla destra.
A questo scontro senza quartiere peraltro i democrat sembrano più che pronti. Neanche 24 ore dopo il passaggio della riforma sanitaria, la commissione banking del Senato ha dato il via libera alla legge che dovrebbe dare nuove regole ai mercati finanziari. E il presidente Christopher J. Dodd ha rinunciato a diversi compromessi raggiunti con i repubblicani, per puntare alla bozza più vicina alla linea dettata dalla Casa Bianca. Accantonata l’illusione bipartisan, i democrat evidentemente hanno deciso di spingere la loro agenda di trasformazioni senza fare nessuna concessione all’opposizione. Per presentarsi con un’identità politica forte e definita - e magari le mani piene - di fronte agli elettori.