Franco Fracassi, Corriere della Sera 20/03/2010, 20 marzo 2010
GARIBALDI E LA PIETA’ PER I NEMICI «FRATELLI SBRANATI DAI FRATELLI»
L’impressione che l’ esito della battaglia di Calatafimi - vinta il 15 giugno 1860 da millecinquecento garibaldini e picciotti contro un numero di poco superiore di soldati bene armati del generale borbonico Francesco Landi - aveva scosso nel profondo la popolazione siciliana venne da molti segnali. Nel percorso fino ad Alcamo, e poi verso Partinico, Giuseppe Garibaldi fu accolto come un trionfatore. Correvano di bocca in bocca le più singolari leggende, come quella di chi asseriva di aver visto che le pallottole dei fucili rimbalzavano sui corpi dei volontari, senza scalfirli. Il segno probabilmente più significativo, certo il più lugubre, del mutamento nei rapporti fra popolazione e truppe borboniche occupanti venne durante l’ attraversamento di Partinico da parte della colonna del generale Landi che si stava ritirando verso Palermo. I battaglioni - raccontò nel suo appassionante diario il cappellano dell’ esercito borbonico Giuseppe Buttà - «disorganizzati marciavano alla ventura, mischiati con carri, artiglieria o cavalleria». A corto di rifornimenti, i soldati avevano cercato di procurarsi cibo e alloggio - come era loro consuetudine - con le requisizioni forzate. La gente del villaggio si era barricata in casa, rifiutando ogni appoggio. Dalle finestre partivano fucilate. Si era scatenata un’ ondata di barbare violenze da parte della truppa: irruzioni nelle abitazioni, uccisioni, case e stalle date alle fiamme («i soldati risposero coll’ incendiare molte di quelle case», ha raccontato poi il testimone borbonico). La gente di Partinico aveva allora ferocemente reagito, abbandonandosi ad atroci vendette di massa contro i soldati borbonici. Quando, due giorni dopo, i volontari garibaldini provenienti da Alcamo attraversarono la strada principale della cittadina, si trovarono di fronte a scene inaspettate e orribili. Raccontò uno di loro: «Per le vie e per le case era stato un combattimento da selvaggi. A entrare in quella città parve di affacciarsi a uno degli orrendi spettacoli di strage fra Greci e Turchi della rivoluzione ellenica di quarant’ anni avanti. Proprio sulle soglie della cittadetta, stavano mucchi di morti bruciacchiati, enfiati, in cento modi straziati. E tenendosi per mano a catena e cantando, vi danzavano attorno fanciulle scapigliate come furie, cui faceva da quadro e da sfondo la via maestra nera d’ incendi non ancora ben spenti. Le campane sonavano a stormo; preti, frati, popolo d’ ogni ceto, urlavano gloria ai ragazzi correnti dietro a Garibaldi, che traversò rapido la città col cappello calato sugli occhi, e andò a posarsi all’ altro capo, mesto come non era ancora parso in quei giorni... Là gli furono condotti alcuni soldatucci borbonici, rimasti prigionieri e salvati a stento da qualche buono; poveri giovani disfatti dal terrore di due giorni passati con la morte alla gola. Consegnati a lui si sentirono sicuri, e piansero e risero come fanciulli». A Partinico il generale Landi aveva perso quaranta dei suoi uomini, oltre a una quindicina di soldati fatti prigionieri. Egli aveva interpretato la giornata delle stragi come una conferma della rivolta in atto e quindi della sua decisione di rifugiarsi il prima possibile a Palermo, ma non aveva rinunciato a vantarsi di quella precipitosa fuga, scrivendone come di una «ritirata a regola d’ arte», una sorta di beffa da lui giocata a Garibaldi. Il generale pativa l’ ostilità della popolazione, era preoccupato per l’ esaurirsi dei vettovagliamenti e sopravvalutava le forze del nemico; il suo principale timore era quello di restare isolato e circondato, preso alle spalle dagli insorti. Scrisse al Luogotenente Castelcicala (il rappresentante del re Francesco II di Borbone in Sicilia) un messaggio drammatico, in cui forniva la sua descrizione della battaglia perduta, annunziava falsamente la morte del «gran comandante» dei filibustieri, cioè Garibaldi (senza peraltro avere l’ animo di indicarlo con nome e cognome) e chiedeva aiuto contro le «masse enormi» degli invasori e dei loro alleati. Affidata a un soldato a cavallo, che però fu bloccato sulla via di Palermo, la lettera finì nelle mani dei garibaldini. Diceva tra l’ altro: «Siccome i ribelli, in grandissimo numero, mostrano di attaccarci, io dunque prego V. E. di mandare istantaneamente un forte rinforzo d’ infanteria, ed almeno un’ altra mezza batteria, essendo le masse enormi, ed ostinatamente impegnate a pugnare. Quivi la mia colonna trovasi circondata da nemici senza fine». Ma all’ origine delle sue analisi esagitate e timorose c’ era l’ autentica debolezza delle posizioni del munitissimo esercito borbonico: questa debolezza derivava dalla sua natura di truppa d’ occupazione, composta com’ era da soldati non siciliani (e da mercenari svizzeri e tedeschi). Ciò non solo esponeva i soldati ad aggressioni e vendette nei villaggi, ma, soprattutto, li tagliava fuori dal circuito dell’ informazione sulle reali forze avversarie. Di nessuno ci si poteva fidare, nessuno nelle campagne e nei paesi forniva notizie attendibili sul nemico. Quanto a Garibaldi, egli definì quello di Partinico un «miserabile spettacolo». Così lo raccontò: «Noi trovammo i cadaveri dei soldati borbonici, per le vie, divorati dai cani... Eran cadaveri d’ italiani da italiani sgozzati che, se cresciuti alla vita da liberi cittadini, avrebbero servito efficacemente la causa del loro oppresso paese; ed invece, come frutto dell’ odio suscitato dai loro perversi padroni, essi finivano straziati, sbranati dai loro propri fratelli...». Insediatosi per la notte, con tutti i volontari, nella frazione di Borgetto, Garibaldi ricevette dal consiglio comunale e accettò «con orgoglio» la cittadinanza onoraria di Partinico. Contemporaneamente, insieme a Francesco Crispi, istituì con decreto il Comitato di guerra, con poteri giudiziari, per introdurre un sia pur minimo elemento di legalità nella ribollente atmosfera delle repressioni e delle vendette.
Franco Fracassi