Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera 19/03/2010, 19 marzo 2010
ACCUSE DI PEDOFILIA E STATUTO DELLA VITTIMA
Da fonti ufficiali della Chiesa abbiamo appreso che i preti responsabili di abusi sui minori, negli ultimi 50 anni, sono 3.000 su un totale di 400.000 preti nel mondo. Se poi consideriamo che anche nel clero sposato protestante esiste questo fenomeno, ciò significa che non c’è nessun legame tra celibato e pedofilia. Risulta inoltre che nella maggior parte dei casi si tratta di rapporti sessuali con giovani dai 15 ai 17 anni e che la legislazione italiana e di molti altri Paesi considera atti di pedofilia solo quelli avvenuti con ragazzi al di sotto dei 14 anni. Resta comunque la gravità di questi atti che nella maggior parte dei casi avviene anche nelle famiglie. Credo che il problema andrebbe affrontato globalmente senza strumentalizzazioni.
Fernando Cabildon
datin@tele2.it
Caro Cabildon, ho letto anche altri numeri. Secondo l’Osservatore Romano l’80% delle denunce sarebbe giunto dagli Stati Uniti e il 20% dall’Europa. In realtà nessuno di questi dati ci dice quello che dovrebbe maggiormente interessarci: se, e di quanto, il fenomeno della pedofilia nel mondo ecclesiastico sia aumentato nel corso degli ultimi decenni. cresciuto, indubbiamente, il numero delle lagnanze, delle denunce e dei processi contro le diocesi, soprattutto negli Stati Uniti, per l’indennizzo dei danni morali subiti dalle vittime. Ma la mia impressione è che il fenomeno, con qualche occasionale impennata, sia tutto sommato costante e appartenga alla natura delle comunità maschili: scuole, seminari, oratori, caserme. Il maggior numero dei casi denunciati non dipenderebbe quindi da una maggiore immoralità del personale ecclesiastico, ma da un altro fattore, per certi aspetti ancora più interessante: il mutamento dello statuto della vittima.
In passato, abitualmente, la vittima taceva. Esitava a parlare di episodi in cui qualcuno avrebbe potuto sospettare la sua complicità. Non voleva essere macchiata dal ricordo di una vicenda che molti avrebbero considerato infamante. La reticenza, in particolare, era pressoché totale nel caso dei soprusi in famiglia, dove prevaleva il desiderio di evitare il dolore che certe rivelazioni avrebbero provocato alla madre e ad altri congiunti. La situazione accenna a cambiare nel momento in cui la persona offesa si accorge che lo statuto della vittima è stato «emancipato» e per certi aspetti nobilitato. Anziché essere guardata con il misto di compassione e sospetto con cui si guarda un appestato, la persona offesa diventa l’eroe di una sacrosanta battaglia contro la tirannia del clero, dei padri stupratori, dei maschi brutali. questo il momento in cui si sente sollecitata a parlare in pubblico, magari talvolta con qualche coloratura e qualche ritocco. Aggiunga, caro Cabildon, che in un Paese afflitto da un alto tasso di litigiosità e da uno sproporzionato numero di avvocati, come gli Stati Uniti, la denuncia può anche produrre qualche vantaggio economico. Così si spiega probabilmente la disparità fra il numero delle denunce americane e quello delle denunce europee.
Quale che sia l’andamento statistico del fenomeno, la Chiesa ha comunque l’obbligo di dare una risposta convincente alla maggiore sensibilità dell’opinione pubblica. Per molto tempo ha pensato che il miglior modo per affrontare il problema fosse quello di nasconderlo sotto il tappeto. Oggi ha interesse a trarre ispirazione da un detto evangelico: «oportet ut scandala eveniant», occorre che gli scandali accadano.
Sergio Romano