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 2010  marzo 16 Martedì calendario

NEL TESSILE LA VECCHIA TRAMA NON REGGE

«Si è rotto l’accordo fra gentiluomini.Il patto è stato chiaro per trent’anni. Io ho sempre garantito una grande qualità e loro mi hanno permesso di lavorare tranquillo. Adesso, tranquillo non sono più».
"Loro" sono i responsabili degli acquisti delle grandi griffe. Lui, che più che poco tranquillo è ormai molto molto nervoso, è un imprenditore comasco di primo piano. Bravo, abile, aggressivo. Uscito sempre indenne dalle crisi cicliche del tessile che, di morti e feriti, a Como ne hanno fatti tanti. La crisi ha cambiato abitudini e ha troncato rapporti. «Mi sono ritrovato in una stanzetta continua l’imprenditore, niente nomi per favore perché sennò lo fucilano- con altre cinque persone, un paio manco le conoscevo, a partecipare a un’asta al ribasso in cui a un certo punto mi sono alzato e me ne sono andato, perché va bene tutto, ma farmi trattare come un pivello da uno di 35 anni, questo no».Il tipo di 35 anni era l’uomo mandato da un marchio del lusso a negoziare con i potenziali fornitori. «Prima di uscire da questa stanza dice - gli ho chiesto dove lavorava prima. Mi ha detto che era il responsabile acquisti di una grande catena commerciale. Gli ho detto: bravo, ma lo sai che differenza c’è fra la mia seta e il caffè?».
Scena di ordinaria disarticolazione economica e umana, nel pieno di una crisi che sta riconfigurando con durezza tutti i rapporti dentro al tessile italiano. Un tessile che costituisce naturalmente uno dei cuori del manifatturiero del nostro paese. «Basti dire - osserva Guido Tettamanti, segretario del gruppo filiera tessile di Confindustria Como- che ci sono 21mila addetti impegnati in 800 aziende, con un fatturato aggregato stimato in 2,5 miliardi, la metà dei quali fatti sui mercati esteri. In media l’anno scorso la flessione della produzione è stata superiore al 20%, con punte del 30% per la seta».
La pressione esercitata a valle della filiera è rilevante. Non c’è soltanto la quotidianità del prezzo sempre più basso e della concorrenza di tutti con-tro tutti. C’è l’impatto della crisi di Ittierre e di Mariella Burani. E sullo sfondo si stagliano anche le scelte strategiche dei grandi marchi, italiani e esteri, per cui il prezzo diventa sempre più un elemento competitivo. «Non dimentichiamo che gli inglesi di Burberry-ricorda l’economista Giuseppe Schirone del Centro tessile serico di Prometeia- hanno deciso di chiudere in Spagna e di delocalizzare in Asia». Dunque, in un contesto sottoposto a più di una fibrillazione, il rischio è quello di uno sbandamento. «Como è sempre stata una piazza di buone relazioni industriali - afferma Francesco Di Salvo, segretario della Cgil-Filctem locale - e per la prima volta ci sfuggono degli elementi del discorso. Anche noi abbiamo l’impressione che si sia deteriorato il rapporto di fiducia fra i big del lusso e i comaschi. Una volta bastava una occhiata. Oggi non è più così. Il contoterzismo eccellente, che ha fatto ricca questa gente, ora non basta più».
In un contesto così duro,quando s’incontrano in un crotto per mangiare pesce di lago, gli imprenditori comaschi sono assillati da molti dubbi. Le sicurezze degli anni scorsi sono sfumate, manco fosse passata la Guardia di finanza dei tempi di Vincenzo Visco. A provare un cambio di passo, negli ultimi tre anni, è stata la Seteria Argenti, che ha investito sulla stampa digitale. « la migliore polizza assicurativa contro la concorrenza dei cinesi», spiega Michele Viganò, membro della quinta generazione di un converter con 60 dipendenti che, fra nuove tecnologiee un archivio di tessuti e disegni risalente agli anni 40, l’anno scorso ha fatturato 15 milioni (-20% rispetto al 2008). «Con la stampa digitale- dice Viganò- su qualunque tipo di tessuto siamo in grado di riprodurre ogni forma e sfumatura. Nessun grande marchio si fiderebbe a dare un file con sopra tutta la sua creatività e tutto il suo futuro industriale a un cinese, con il rischio che questi lo copi e poi lo passi a un concorrente».
Almeno in questo, su un mix nuovo di produzione di alta gamma, tecnologie e servizio, il patto fra il lusso e il distretto comasco ancora regge. Un abbozzo di dialogo fra i marchi del lusso e i piccoli e i medi imprenditori è stato delineato a Perugia. Nell’intera Umbria, nel 2000 il tessile-abbigliamento aveva 2.900 aziende con 15mila addetti. Oggi sono 2mila con meno di 10mila occupati. «Il problema di fondo- osserva Sergio Sacchi, docente di Politica economica all’università di Perugia - è che il nostro tessuto produttivo è arrivato alla crisi con fisionomie molto differenti. Con punte d’eccellenza, ma anche con pezzi interi della filiera segnati da scarsi investimenti tecnologici e di fatto già fuori mercato prima della recessione».
In questo frangente, ognuno cerca di formulare una risposta efficiente.
A Spello, allo Studio Roscini, la crisi è stata avvertita con un impatto "accettabile". Dice Tiziano Ciampetti, imprenditore di seconda generazione:«Abbiamo chiuso l’esercizio a 20 milioni, con un calo limitato al 15%». In un mercato che ha esaltato l’ultraspecializzazione, lo Studio Roscini, con i suoi 150 addetti, ha scelto d’offrire un servizio a 360 gradi: dal bozzetto preparato insieme alla griffe alla consegna nei negozi del prodotto finito. Una non specializzazione che ha riguardato anche i prodotti: «Dalla maglieria alla pelle e ai cappelli. Uomo e donna. Facciamo tutto», dice Ciampetti. A fronte d’una minoranza che non è stata subissata dall’onda alta della crisi, ci sono piccoli imprenditori in grave difficoltà. Che provano a organizzarsi. Luigi Ceccarelli è un umbro ipercinetico. Ha l’attivismo dell’artigiano che deve rincorrere tutto:la clientela, la domanda, la tecnologia, il gusto, il credito bancario. Oltre alla gestione della sua azienda (22 addetti e un fatturato da 1,3 milioni) si è inventato un’attitudine aggregatoria che, nel pulviscolare capitalismo italiano, è abbastanza rara. Ha costituito un’associazione temporanea d’impresa, che raduna 142 società, che insieme fatturano 150 milioni e danno lavoro a 3mila persone. L’obiettivoè quello di convincere i grandi marchi del lusso a riportare lavoro in Umbria.
«Personalmente - sostiene Ceccarelli - ho parlato con i buyer di una serie di case di moda. Hanno trovato interesse per lo schema che ho proposto. Il gruppo La Perla, per esempio, ha già aderito». Rispetto all’Est Europa, a partire dalla Romania, la differenza di prezzo è del 45 per cento. «Le griffe- afferma Ceccarelli- sarebbero disponibili a metterci il 20 per cento. Il problema è come trovare il restante 25 per cento. Ma se Sarkozy, il marito di Carla Bruni, destina 6 miliardi per l’auto, perché in Umbria nessuno può mettere il rimanente 25 per cento?». Una domanda che, Sarkò o non Sarkò, ha una risposta univoca. «Per l’Unione Europea - dice Vinicio Bottacchiari, direttore di Sviluppo Umbriasarebbero aiuti di stato». Bottacchiari non ha nessuna intenzione di comportarsi da mini-Iri. Ha però ben chiaro che, se non si convincono i grandi marchi a tornare a comperare in Umbria, le cose potrebbero mettersi molto male. «Perché sull’Umbria - dice con un linguaggio quasi gramsciano - si stanno scaricando le contraddizioni del sistema». Niente soldi diretti, va bene. Una alternativa c’è, o meglio ci sarebbe. «Si possono fare investimenti - spiega Bottacchiari- che migliorino le condizioni di contesto ». I soldi ci sarebbero: 7 milioni di fondi Ue.
Una soluzione guardata con favore anche dai sindacati, che farebbero qualunque cosa pur di scongiurare la chiusura di queste aziende. «Il cerchio però non si è chiuso- spiega Renzo Basili, segretario della Cgil-Filctem di Perugia - perché la regione,invece di puntare su un’iniziativa nata dal basso,continua a fare calare dall’alto bandi per l’acquisto di macchinari: vanno bene, ma non sono sufficienti. Noi, di capacità produttiva, ne abbiamo fin troppa». Il tessile umbro, dunque, è sul filo del rasoio: «Bisogna migliorare le condizioni di sistema, per esempio, riducendo i costi per la logistica e il magazzino e investendo in centri di servizio per l’innovazione,che oggi da noi è ancora insufficiente », conclude con realismo il sindacalista.