Cristina Lodi, Libero 13/3/2010, 13 marzo 2010
FAR LA MORALE ALLA MOGLIE DEL SUICIDA L’ULTIMO ERRORE DEI PM DI VIA POMA
Si sono messi in testa di risolvere il giallo Cesaroni. Ma i magistrati di Roma che hanno riaperto a distanza di venti anni il processo per l’omicidio di Simonetta, dovrebbero anzitutto evitare di contraddire se stessi. Hanno mandato alla sbarra l’allora fidanzato Raniero Busco: per farlo è bastata la conferma che appartiene a lui la saliva rimasta sul corpetto della sua ragazza, assassinata con 29 coltellate il 7 agosto 1990. Miracolo dei reagenti e del microscopio, dell’avanguardia tecnologica e dell’avvento della investigazione scientifica incarnata dal Ris. I pm, convinti di avere in mano la chiave, sono così tornati nell’aula della Giustizia. Ma già alla quarta udienza del processo accade qualcosa che sconquassa la ragione e ci fa sentire sempre più lontani dalla verità, sentendo parlare le toghe stesse viene infatti sempre più difficile pensare a Raniero Busco come al massacratore di via Poma. Questo perché il suicidio (intriso di risvolti psicologici e mistero) di Pietro Vanacore, ha indotto i magistrati (di per sé già nel pallone) a trasformare proprio lui (il portiere suicida del caseggiato della morte perseguito per due decenni) nel Primo Sospettato. Pietrino Vancore, annegato nel mare di Puglia tre giorni prima di testimoniare in aula, è diventato per quel suo gesto il perfetto colpevole inutilmente assolto dai giudici. Il pubblico ministero Ilaria Calò, che sostiene l’accusa contro Raniero Busco, dichiara infatti che Vanacore e sua moglie Pina per tutto questo tempo hanno depistato le indagini, inquinato la scena del delitto fino a impedire la soluzione del caso.
Poco importa che il signor Pietrino fosse innocente per sentenza definitiva. E questo ben prima di buttarsi a mare con una corda alla caviglia e il veleno in pancia. Secondo il magistrato, quell’uomo, era e resta comunque un colpevole neanche tanto presunto. Colpevole lui e anche la sua vedova. Colpevoli entrambi, ma di che cosa? Di avere coperto qualcuno, sempre secondo l’accusa. Questo qualcuno però non sarebbe l’imputato Raniero Busco. Infatti la dottoressa Ilaria Calò, che non rinuncia a portare in aula Giuseppa (Pina) De Luca, dice che la signora dovrà prima o poi chiarire il mistero delle chiavi dell’ufficio in cui Simonetta Cesaroni fu trovata straziata. Chiavi che erano in suo possesso la sera del delitto, ma che lei avrebbe consegnato malvolentieri ai carabinieri. «Quelle chiavi legate da un nastrino giallo sono uno snodo fondamentale in questa inchiesta», ha ripetuto la dottoressa Calò a 24 ore dai funerali di Pietro Vanacore. Roba vecchia e rivelatasi senza fondamento per due decenni, la storia delle chiavi. Ma non finisce qui, l’accusa durante l’udienza è tornata a puntare il dito contro il defunto, sostenendo senza provarlo che «fu proprio lui a trovare Simonetta nel sangue. Scoprì il corpo ma non chiamò la polizia. Pensando al tragico epilogo di un rapporto clandestino, fece ben tre chiamate: a Francesco Caracciolo presidente degli Ostelli della gioventù, al direttore Corrado Carboni e al datore di lavoro della vittima Salvatore Volponi. Dunque il portiere invece di allertare la polizia fa le telefonate misteriose, poi prende le chiavi di riserva dell’ufficio legate dal nastro giallo (le vede appese a un chiodo),
chiude la porta e se ne va». Questa la ricostruzione del pm, ovviamente respinta dalla difesa della famiglia di Pietrino. Dice l’avvocato Antonio De Vita: «La questione delle chiavi è già stata chiarita in sede di proscioglimento di Vanacore, non capisco cosa c’entri tutto questo oggi». Alla sua voce fa eco quella del difensore di Salvatore Volponi (il teste non era presente per questioni di salute e sarà sentito più avanti). Spiega l’avvocato Antonietta La Mazza: «Una cosa è la ricostruzione del pm, altro sono le prove. Non mi risulta che Volponi abbia ricevuto alcuna telefonata quella sera». Non importa. Secondo l’accusa resta il sospetto che il portiere suicida, complice la moglie, abbia depistato, ostacolato le indagini e coperto il responsabile della morte di Simonetta. Forse il peso della coscienza lo ha spinto a uccidersi. Questa la tesi togata. Ma chi voleva coprire Pietrino Vanacore? Non si sa. Di certo non può avere coperto Raniero Busco. Nemmeno lo conosceva. Eppure l’ex fidanzato è alla sbarra in quanto considerato l’autore del delitto, ”incastrato” dal suo Dna individuato dopo venti anni sul corpetto della ragazza. Un indizio che si unisce ad altri, ma inutilmente perché insieme non formano neanche mezza prova di colpevolezza.
A mettere i brividi, oltre al processo e ai magistrati che torturano la vedova Vanacore, è l’anatema dell’imputato. Lo ha dichiarato al settimanale ”Oggi” otto mesi fa: «Qualcuno non è a posto con la coscienza. C’è chi sa e non parla. Maledetto. Devi parlare. Salvami». Chiaro che si rivolgeva al portiere. Anche i magistrati sostengono che Pietrino sapeva e ha sempre coperto il colpevole. Il quale però non può essere l’imputato, non quello che lorsignori hanno portato alla sbarra. Ci auguriamo si chiariscano le idee, magari prima della sentenza.
Cristina Lodi, Libero 13/3/2010