Alessandra Comazzi, La Stampa 11/3/2010, pagina 22, 11 marzo 2010
LUCEDIO, ZATTERA SUL MARE DI RISAIE
L’atmosfera è da foresta di Sherwood, ti aspetti Robin Hood dietro una fronda. Invece è il Bosco di Trino, bello da visitare in tutte le stagioni. A parte luglio e agosto: la frescura è assicurata, ma anche i moscerini. In primavera, l’aria profuma di acqua e di mughetti. Allora, si prende la bicicletta, decisamente il mezzo più consigliato (si può affittare nel parco), ma pure a cavallo non è male, e ci si inoltra attraverso questa «zattera galleggiante sul mare delle risaie», area protetta dal 1991, che si estende ai complessi architettonici dell’Abbazia di Lucedio, di Montarolo e di Madonna delle Vigne. Valorizzati gli alberi autoctoni, i carpini, gli ontani, eliminati i pioppi, diradate le acacie. Ogni volta che a Trino nasce un bambino, la Partecipanza pianta un albero con il suo nome. Un gesto delicato, ma anche un piccolo, e molto naturale, investimento per il futuro, a indicare continuità fra l’antica istituzione e i cittadini. La dizione esatta di questo pressoché unico esempio di foresta planiziale, quella che un tempo ricopriva l’intera pianura vercellese, è: Parco naturale del Bosco delle Sorti della Partecipanza di Trino. Proprio così, con tanti complementi di specificazione. Dietro ai quali c’è una storia affascinante e antica. E c’è, pure, una continua lotta per il mantenimento dell’autonomia.
Un’autonomia che nasce nel XIII secolo. Questa importante area boschiva si è preservata fino ai giorni nostri grazie a rigide regole di gestione dei tagli che risalgono al Medioevo: secondo alcune fonti, le regole furono fissate nel 1202, quando Bonifacio I, marchese del Monferrato, fece una donazione alle famiglie che lo avevano aiutato in una delle tante guerre dell’epoca. Quelle prime famiglie trinesi, poco più di mille, da allora si tramandano il diritto a far legna nel tratto di bosco detto «quartarolo», «quartareu» in dialetto, frutto della divisione in quattro dell’unità di misura chiamata «punto». Ogni anno, in novembre, questo quartarolo viene estratto a sorte (il Bosco delle Sorti, ecco perché) nell’ambito della quantità indivisa. Il caso decide in quale zona ciascun socio avrà diritto di abbattere la sua quantità di ceduo. Il diritto successorio è complicato, e comunque, segno di modernità, da tempo ereditano anche le donne. I soci partecipanti sono circa 1270, di cui 27 residenti all’estero. Trinesi, e «partecipanti», nel mondo.
La Partecipanza non ha un presidente o un segretario, ma un «primo conservatore», l’appassionatissimo Bruno Ferrarotti. Dice: «Ho sempre presente il proverbio masai, la terra non ci è stata donata dai nostri padri, ma prestata dai nostri figli. Abbiamo un debito con le future generazione che consiste nel restituire la nostra terra, il nostro Bosco delle Sorti, la nostra Partecipanza integri: se possibile in uno stato migliore di quello in cui l’abbiamo trovato». Ci state riuscendo? «Abbiamo fatto tanto, sì».
Il bosco è vastissimo. Urge una sosta. Ecco stagliarsi tra il verde la Cascina Guglielmina, già casa colonica, ristrutturata nel 2005. Poi altri due rifugi, Crocetta e Termini. Alla Guglielmina ci sono le camere, si può dormire e far giocare i bambini nell’area attrezzata, si organizzano concerti e presentazioni di libri, ma non c’è servizio ristorante. Si può chiamare un catering, se non si vuole uscire dal parco e assaggiare ugualmente le specialità vercellesi.
Bonificata nel Medioevo da monaci benedettini e cistercensi, la pianura qui ha trovato la sua unità nella risicoltura. Dal riso alla panissa è un piccolo passo per il cereale, ma un grande passo per l’umanità affamata. Sostanzialmente, la panissa è un risotto fatto con il brodo dei fagioli. Poi, ogni famiglia vi aggiunge i suoi ingredienti. Chi il salame nel grasso (conservato sotto grasso nelle olle) triturato nel soffritto di base; chi aggiunge la verza nel brodo di cottura dei fagioli, o la patata; chi aggiunge pomodoro, chi lo sottrae; chi tosta con il vino rosso. Il piatto non va trascurato. E neppure le rane: c’è chi le odia e chi le ama, certo. Chi le ama qui le può trovare nella frittata, in umido rosso e in umido verde, con la pastasciutta, con la minestra. Da non farsi sfuggire i funghi, quando ci sono, i carpioni di tinche e di carpe: pesci di fiume ritornati in auge dopo gli anni impraticabili del Po. Cucina di tradizione, cucina povera. Ma squisita. Da innaffiare con la barbera del Basso Monferrato che sta lì dietro. O con il grignolino del Monferrato casalese, una poesia. Moscato alla fine, ad accompagnare un altro grande classico, lo zabaglione. O, in estate, le pesche con l’amaretto e la cioccolata. Poi è meglio riprendere la bici e pedalare, dimenticando i fagioli e fingendosi elfi leggeri, creature del bosco.