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 2010  marzo 10 Mercoledì calendario

I FONDI MONETARI PER GESTIRE LA CRISI

«Una cosa che impari abbastanza in fretta lavorando al Fondo monetario internazionale è che mai nessuno è felice di vederti». Capoeconomista del Fmi fino a neanche due anni fa, Simon Johnson non si è mai fatto troppe illusioni sulla sua popolarità. «Di solito – ha scritto sul mensile The Atlantic – i "clienti" bussano alla tua porta solo quando i capitali privati li hanno abbandonati, i partner non sono riusciti a gettar loro un salvagente e i tentativi di soccorso di amici potenti come la Cina o l’Europa sono falliti».
La faccia di un funzionario del Fmi è sempre stata l’ultima cosa che un primo ministro vuole trovarsi davanti: di solito si presenta insieme a una catastrofe finanziaria, esige sacrifici fino ad allora rimossi dall’agenda e comporta una traumatica perdita di controllo per il governo in carica. Gli oligarchi, quelli che invariabilmente sostengono un sistema oberato di debiti, sanno che dovranno cedere un po’ delle loro rendite. In Indonesia, Thailandia, Corea del Sud o in Malesia i prestiti del Fondo monetario, condizionati a dure riforme, furono vissuti come atti di guerra. E quando nel 2008 gli oligarchi vicini al Cremlino si sono trovati con 490 miliardi dollari di debiti e il barile a 30 dollari, Vladimir Putin ha preferito bruciare le riserve piuttosto che chiamare il Fmi.
Quasi ovunque nel mondo, poter contare su un Fondo monetario non è mai stato utile come oggi. Ma più si ramifica la globalizzazione, più sono detestati gli organismi globali per la gestione delle crisi di bilancia dei pagamenti che sempre più spesso travolgono le economie nazionali. Quasi ogni Paese o regione del mondo cerca di tenere alla larga i successori di Simon Johnson. Dopo la crisi del ”97, quasi tutti i grandi Paesi esportatori dell’Asia hanno accumulato riserve senza precedenti come forma di auto-assicurazione in caso di tempeste future. A giorni, nella cosiddetta «iniziativa di Chiang Mai», i governi dell’Asean con la Cina, Hong Kong e la Corea del Sud lanceranno un fondo comune da 120 miliardi di dollari per i salvataggi nella regione. Anche in America Latina le potenze emergenti, a cui dieci anni fa il Fmi dettava le condizioni, ora si smarcano: il Costa Rica ha accettato un prestito dalla Cina condizionato solo alla rottura dei rapporti con Taiwan, il Brasile ha accumulato riserve per oltre 200 miliardi di dollari e il Venezuela cerca di imitarlo.
Se l’Europa pensa adesso al suo proprio Fondo monetario, non fa che seguire una tendenza già definita da quelle che un tempo furono le sue colonie. Non era così che doveva andare, nei progetti dei fondatori del Fmi nel ”44. Quando l’inglese John Maynard Keynes e l’americano Harry Dexter White progettarono il nuovo organismo in una cittadina del New Hampshire chiamata Bretton Woods, l’obiettivo era diverso: aiutare l’Europa a emergere dai suoi debiti di guerra e lanciare operazioni come la prima in assoluto, un prestito alla Francia nel 1947.
Da allora il mondo è cambiato, le crisi di liquidità e insolvenza molto meno. Un Fondo monetario, che sia europeo oppure no, mantiene anche per la moneta unica una sua impopolare utilità. Come altrove nel mondo, in Europa un’istituzione del genere dovrebbe assicurare almeno tre funzioni. La prima è esattamente il tipo di sorveglianza sulla quale la Commissione, i ministri finanziari dell’Eurogruppo e tutto il Patto di stabilità hanno fallito: evitare che i Paesi del club accumulino debiti pubblici e privati, spingere i sistemi verso livelli di competitività compatibili con una moneta unica che non svaluta. Divergenze sostenute, o economie che corrono al di sopra dei propri mezzi, possono produrre solo emergenze come quella di Atene.
 qui che dovrebbe scattare la seconda funzione di un Fondo monetario (magari) europeo: intervenire per prevenire le crisi, impedire che la sfiducia degli investitori travolga un governo fino all’insolvenza e al collasso del sistema. Come si è visto da gennaio in poi, l’Unione europea è priva dell’alfabeto per scrivere anche solo una pagina del genere: deve improvvisarlo di giorno in giorno, soggetta ai vincoli della politica quotidiana in ognuno dei Paesi decisivi per la scelta. Le elezioni del 9 maggio nella Renania del Nord-Vestfalia oggi possono paralizzare il sistema di decisione europeo per un aiuto alla Grecia. In un’Eurolandia senza regole adeguate alle ambizioni, un voto regionale pesa più del rischio di contagio globale.
La terza funzione di un Fondo europeo non può dunque essere esclusa. Come ha dimostrato nel 2001 l’Argentina, anche uno Stato può aver bisogno di un’ordinata procedura fallimentare. All’epoca la numero due del Fmi, Anne Krueger, cercò di imporre una sorta di congelamento dei crediti di Buenos Aires per una soluzione ordinata e gestita dal Fondo: fu travolta dalle pressioni delle banche americane, decise a recuperare al più presto il più possibile.
Ora tutto questo potrà mai funzionare? Per l’architettura di Maastricht, sono occorsi dieci anni. Per una svolta che ridisegna il ruolo di Bruxelles e della stessa Banca centrale europea nei prestiti e nelle garanzie, potrebbe servire quasi altrettanto. Di certo quando i governi europei nel 2009 hanno offerto 175 miliardi di dollari in più per far funzionare il vecchio Fmi, non ci avevano pensato. Né ci hanno pensato quando hanno rifiutato l’idea di un seggio unico dell’euro nell’organismo di Washington. Se è per questo, però, neanche John Maynard Keynes avrebbe mai immaginato che le ex colonie di Londra un giorno sarebbero state il modello dell’Europa.
Federico Fubini

LA SCHEDA
Il Fondo Monetario Internazionale viene concepito nel 1944 durante la conferenza di Bretton Woods allo scopo di assicurare un controllo delle finanze internazionali per evitare il ripetersi di crisi come quella del ”29.

I compiti del Fmi:
- promuovere la cooperazione monetaria internazionale
- facilitare l’espansione del commercio internazionale
- promuovere la stabilità dei rapporti di cambio
- dare fiducia agli Stati membri rendendo disponibili le risorse del Fondo
- ridurre gli squilibri delle bilance dei pagamenti degli Stati membri

186 i Paesi membri
5 i membri permanenti del Consiglio esecutivo, su un totale di 24
Appartengono ai 5 Stati che detengono la quota maggiore (Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia e Regno Unito)
2.478 i componenti dello staff provenienti da 143 Paesi

I maggiori prestiti erogati:
1997 Indonesia, Thailandia, Corea del Sud
1998 Malesia
1998 Russia
1998 Brasile (41,5 mld Usd)
2000 Turchia (11 mld Usd)
2001 Argentina (21,6 mld Usd)