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 2010  marzo 10 Mercoledì calendario

DUE ARTICOLI DAL MESSAGGERO DEL 10/03/2010 SUL SUICIDIO DI VANACORE


«UNA VITA DI DOLORE E DURO LAVORO, POI IL DONO DI QUEL POSTO A ROMA» -

Ci sono venti pagine manoscritte, firmate una per una da Pietrino Vanacore, che raccontano meglio di chiunque persona chi fosse quest’uomo che ieri ha deciso alzare bandiera bianca. Da una quindicina di anni le custodisce Antonio De Vita, il suo avvocato. Che con il tempo era diventato suo amico, suo confessore, suo strenuo difensore. E che oggi ha appena la forza di mormorare: «Chiedeva solo pace. Cercava solo un posto in cui nessuno gli avrebbe domandato se avesse qualcosa da dire».
Perché quello che bisognava sapere, Pietrino lo aveva scritto in quella pagine ordinate, su fogli di carta usobollo. Che non sono mai state depositate agli atti del processo eppure disegnano il ritratto dei sentimenti, dei dolori e delle emozioni che hanno squassato tutta la vita di Vanacore. E’ la storia di un uomo che sembra in lotta con il suo destino, che lo mette alla prova colpendolo negli affetti, nella salute, nel portafoglio, nella libertà personale. Le prime parole sono già un titolo: «Una vita sofferta e travagliata…». Segue la cronaca del percorso che lo aveva portato alla guardiola di via Poma, a quel lavoro sereno che lui stesso dice che apparve a lui e alla moglie Giuseppa come «il primo regalo del Signore». La vicenda giudiziaria rimane sullo sfondo, relegata alle ultime pagine, come se la sofferenza vera sia stata quella patita negli anni precedenti, a cominciare dal periodo dell’adolescenza, a Sava, quando vide fallire la piccola attività del padre, che vendeva vini e oli e la sua famiglia passò da una situazione di agiatezza alla povertà: «durante la settimana, erano molti i giorni in cui i fornelli della cucina restavano spenti», annotava Pietrino. C’è il racconto della sua passione per i motori, del brevetto di guida preso appena maggiorenne, del servizio militare come autista di camion e infine della ricerca spasmodica di un posto di lavoro in giro per l’Italia.
Ma sono le pagine dedicate alla prima moglie, Francesca Bungaro, le più toccanti; la chiama sempre ”la moglie” e racconta di quando cadde per la scale di casa, accidentalmente, e subì un colpo alla schiena. Si erano già trasferiti in Veneto, erano già nati Mario e Anna, ed erano piccoli. Vanacore portò la moglie in ospedale e dopo qualche ora la rimandarono a casa. Passarono alcune settimane e Francesca Bungaro continuava a sentire dolori; tornarono in un pronto soccorso e finalmente i medici si accorsero che quella caduta per le scale aveva danneggiato un rene, che il tempo trascorso aveva provocato una brutta infezione, che l’organo era praticamente da buttare. Francesca Bungaro venne trasferita in un ospedale in Liguria. E per Vanacore fu l’inizio di un calvario: lavorava come camionista in una ditta di trasporti: «alcuni giorni, tornavo a casa la sera dopo aver guidato il camion per centinaia di chilometri, posavo il camion e salivo sulla mia 500 Topolino e mi mettevo in viaggio per la Liguria… guidavo di notte e certe volte mi fermavo in qualche città sul tragitto, mi fermavo a riposare in macchina ma quasi sempre non riuscivo a dormire per il freddo; allora uscivo dalla macchina, grattavo il ghiaccio che si era formato sul vetro e ripartivo». Alla fine, Francesca Bungaro fu dimessa, ma non era guarita e tutti lo sapevano «ma almeno la famiglia era di nuovo riunita» scriveva Vanacore. Che nel frattempo aveva trasferito la residenza nel torinese. Alla fine la moglie se ne andò, non prima di aver dato alla luce Mirco, l’ultimo figlio: «sembrava un miracolo, quel giorno in ospedale vennero giornalisti e fotografi perché un parto del genere non si era mai visto» annotava Vanacore nel suo memoriale. Il dolore fu tremendo: «Pensai al suicidio, se non l’ho fatto è stato solo per amore dei miei figli» si legge ancora nel dossier scritto a cuore aperto dal portiere di via Poma.
E poi, arrivano altri dolori, altre sofferenze, altre umiliazioni: «Una volta, lavoravo in una ditta di trasporti, e il principale mi chiamò e mi disse di non tornare a casa quella sera, che avevamo ricevuto lo sfratto e avevano buttato la famiglia fuori di casa; disse che i ragazzi erano stati ospitati dai vicini del palazzo e che io avrei dovuto arrangiarmi per quella notte, poi fu molto comprensivo, e mi disse se intanto che cercavo una sistemazione, volevo arrangiarmi con la mia famiglia in una stanza che era rimasta libera nel magazzino della ditta».
In quegli anni Vanacore ha già conosciuto e sposato Giuseppa De Luca: racconta che gli affitti sono alle stelle, che la vita al Nord costa cara e che, alla fine, decidono di tornare a Sava, in cerca di un altro lavoro: «ma anche al paese, siamo andati avanti qualche mese, poi non avevamo più nulla per mangiare». Vanacore racconta che ascoltò il consiglio di un amico: «Cerca su Roma, proponetevi come coppia al servizio di qualche famiglia». Intanto i ragazzi sono cresciuti; Anna, come abbiamo già visto, è andata via da casa a sedici anni, e Mario a diciassette. Solo il piccolo Mirco ha bisogno ancora un po’ di quel poco che i genitori possono dargli. Così Pietrino arriva nella capitale, alle dipendenze del costruttore Erasmo Cinque, fino a quella festa che gli cambiò la vita. Venne una ditta di catering, lui conosceva uno dei camerieri e gli disse che gli sarebbe piaciuto fare il portiere di uno stabile; quello sapeva che in via Poma ne cercavano uno: «Ci presentammo dall’amministratore con mia moglie Giuseppa, ci fecero dei test, poi ci presentarono agli altri condomini, alla fine ci presero; ci apparve come un dono del Signore».
Il resto è storia recente; ma leggere dopo anni quali erano stati dolori e le difficoltà di Pietrino Vanacore può aiutare a comprendere la tempra, la freddezza e il lucido distacco che dimostrò in tutti i momenti dell’inchiesta. Ma aiuta a decifrare quella frase lasciata ieri, in segno di resa, sul cruscotto della sua vecchia automobile, targata ancora Roma.
Massimo Martinelli

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LA NUOVA PISTA: DUE TELEFONATE MISTERIOSE -

«Portiere, possidente, licenza media, ho militato, non ho precedenti penali»: è il 10 agosto del 1990, Pietrino Vanacore è in carcere da qualche ora. Si presenta così al pm Pietro Catalani che gli chiede se vuole rispondere alle domande o scegliere il silenzio. il primo passo verso il Calvario, il primo ostacolo da superare: è già indagato per l’omicidio di Simonetta Cesaroni. Verrà poi assolto, ma il sospetto lo inseguirà per vent’anni. Nel frattempo, l’anno scorso un’altra persona è finita al centro dell’inchiesta, l’ex fidanzato della vittima, Raniero Busco. Ma già alla prima udienza del processo che lo vede unico imputato, sono riemersi i vecchi misteri ed è tornato in scena il portiere dello stabile di via Poma.
Sarebbe toccato a lui, a sua moglie Giuseppa De Luca, e al figlio Mario venire in aula dopodomani, a raccontare la loro verità. Avrebbe potuto avvalersi della facoltà di non rispondere, Pietrino il portiere, perché indagato in reato connesso. Ma la pressione da sopportare deve averlo schiacciato. Il pubblico ministero Ilaria Calò gli avrebbe chiesto, infatti - se non a lui alla moglie - di spiegare come mai nelle ore precedenti alla scoperta del cadavere, due telefonate sarebbero partite dall’apparecchio dell’ufficio dove la ragazza doveva essere stata uccisa da poco. Sarebbe state indirizzate a Salvatore Volponi (suo datore di lavoro, anche lui citato come testimone), a Corrado Carboni (altro datore di lavoro) e a Francesco Caracciolo di Sarno (presidente dell’Associazione ostelli della gioventù). Gli inquirenti, non potendo disporre dei tabulati telefonici perché, all’epoca, non era possibile averli, sarebbero risaliti a questi particolari grazie alla testimonianza della moglie del factotum di Caracciolo, Mario Macinati, e ad alcune intercettazioni telefoniche. La donna ha riferito di aver ricevuto una chiamata al telefono di casa la sera in cui Simonetta è stata uccisa, da qualcuno che cercava l’avvocato. Una persona che lei avrebbe individuato in Vanacore e che chiedeva di parlare urgentemente con il presidente dell’Aiag, perché era successa una cosa gravissima.
C’è di più, secondo la ricostruzione della procura, pur non avendo responsabilità dirette nell’omicidio, il portiere avrebbe fatto le telefonate perché, in realtà, voleva ricattare i tre. Trarne, insomma, un vantaggio personale. A questo punto, qualcuno gli avrebbe detto di ripulire l’appartamento, probabilmente prima di fare sparire il cadavere. Avrebbe, poi, chiuso la porta dell’ufficio con le chiavi appese al muro, quelle con un fiocco giallo, e sarebbe tornato a casa. Tutto questo, sempre secondo la ricostruzione degli inquirenti, troverebbe conferma nel comportamento di Giuseppa De Luca che, all’arrivo della polizia, avrebbe tentato di nascondere il mazzo agli agenti.
Di questo e di altro avrebbero voluto cercato di parlare in aula le parti. E anche di quell’agendina rossa, con la pubblicità Lavazza, che è stata consegnata erroneamente dalla polizia alla famiglia Cesaroni tra i reperti appartenenti alla ragazza e recuperati sul luogo del delitto. «Si è trattato di un errore, di pura confusione», ha motivato qualcuno tra gli addetti ai lavori. «L’agendina era lì perché Vanacore l’ha dimenticata dopo aver fatto le telefonate e aver pulito l’appartamento», è, invece, il sospetto nutrito dagli inquirenti. Comunque siano andate le cose, Pietrino non potrà più rispondere a queste domande, ma - anche se non ora - potrà farlo Giuseppa, sua moglie. E forse dirà ciò che avrebbe detto il marito. Le stesse parole che avevano riferito alla polizia nelle ore successive al delitto. Dissero in momenti separati: «abbiamo visto una persona sospetta uscire con un fagotto sotto al braccio negli orari compatibili all’omicidio». Usarono tutti e due la parola fagotto. La persone indicata dai due si salvò, perché, per sua fortuna, era in ferie in caicco in Turchia.

Valentina Errante e Cristiana Mangani