Barbara Schiavulli, Il Messaggero 8/2/2010, 8 febbraio 2010
LA GIORNALISTA ”INFILTRATA”
BAGDAD - A Bagdad incombe il silenzio spezzato solo dal tuono delle esplosioni che riecheggiano in lontananza intermittenti, quasi a segnare il tempo che passa di una giornata che ha fatto la Storia dell’Iraq. E’ il giorno in cui gli iracheni hanno sconfitto la paura. Imposto il coprifuoco, non ci sono macchine, se non qualcuna autorizzata e quelle dei militari che presidiano le strade. La gente decide di non andare a votare presto, o comunque non arriva velocemente ai seggi perché per molti ci vogliono ore di cammino sotto un sole che si è fatto improvvisamente cocente. La paura che da un momento all’altro un razzo possa raggiungere un seggio regna sovrana, ma tutti scacciano la possibilità dalla mente come le mosche che non danno tregua, in una Bagdad che sembra più desolata e sporca del solito.
Molti non trovano il proprio nome al seggio a cui pensano di essere iscritti e vagano di scuola in scuola trascinandosi tra le strade polverose. I poliziotti sono nervosi, all’entrata dei seggi le donne vengono separate dagli uomini, in quelli più piccoli, di solito scuole elementari, i controlli sono meno serrati, forse si sa che non arriverà molta gente, in quelli più grandi invece lunghe file di persone attendono di essere perquisite. Niente macchine fotografiche, cellulari senza batteria attaccata, il pericolo dei kamikaze incombe. «Dobbiamo stare soprattutto attenti alle donne e ai disabili, perché sono più difficili da controllare», ci dice un gentile poliziotto che mostra fieramente il dito macchiato da quell’inchiostro che rende gli iracheni orgogliosi. Hanno appena fermato un ragazzo che tenta di scavalcare una transenna per superare la fila, con il fucile puntato lo allontanano da tutti e lo perquisiscono. «E’ solo uno stupido», ci rassicura il poliziotto, mentre la gente si schiaccia contro il muro.
Indosso un’abbaya, la lunga mantella sciita, il velo nero che incornicia un viso accaldato. Individuiamo un seggio piccolo ma affollato, dove un nugolo di donne discute su chi votare. E’ l’ex premier Allawi il favorito, il laico sciita che ha scelto di puntare sulle donne e su un partito misto con sciiti e sunniti. Le elettrici del gruppetto sono tutte velate e forse per questo Allawi piace tanto, a molte donne la rigidità imposta dalla violenza degli ultimi anni comincia a stare stretta. Io sono un’irachena sordomuta, con i documenti di un’irachena molto somigliante. Non ci sono osservatori internazionali. La confusione delle donne domina. Con sicurezza dò il documento, neanche mi guardano bene in faccia e mi viene data una scheda grande come un foglio di giornale zeppa di numeri che corrispondono al nome dei candidati. In tutto il Paese sono 6100 per 325 i posti del parlamento, il 25 per cento dei quali destinati alle donne. Entro nella cabina, per senso civico annullo la scheda e poi la imbuco tra i sorrisi soddisfatti degli impiegati, il dito affonda in una gelatina nera, prova inconfutabile di essere dalla parte di un Iraq ancora tutto da costruire.
Nonostante la possibilità di brogli che incombono, gli analisti sono convinti che comunque nessuna coalizione otterrà la maggioranza assoluta e già si studiano alleanze. Ci vorranno mesi per un governo. «Oggi ci sentiamo eroi», ci dice un iracheno, che nelle elezioni del 2005 perse il cugino vittima di un kamikaze. «Non ho paura di morire, neanche se ci fossero 100 morti mi impedirebbero di essere qui, questa è la mia risposta ai terroristi, voto per il futuro dei miei figli», ci dice Abbas Abbas, un uomo di 40 anni che lavora come impiegato. «A quale etnia appartengo? Oggi non ha importanza, siamo tutti iracheni».
Fuori incombono i militanti, che però non riescono a scatenare l’apocalisse che avevano promesso. Razzi in tutti i quartieri, un paio di case crollano, 38 morti, un centinaio di feriti, ma non abbastanza da fermare gli iracheni. «I vincitori di queste elezioni sono gli iracheni», ha detto il presidente Talebani. «Invito chi perderà ad accettare i risultati», ha consigliato il premier al Maliki. Il timore è che gli sconfitti, che siano sunniti o sadristi che con le loro milizie hanno insanguinato l’Iraq, possano riprendere le armi. Ma Moqtada al Sadr, il leader radicale sciita, ha insistito perché i suoi fedeli (più di un milione di persone solo a Bagdad) andassero a votare perché se una volta pensavano di poter cacciare gli americani combattendo, ora credono di poterlo fare politicamente. E non è completamente sbagliato, queste elezioni sono importanti anche per gli americani che, confidando in un Iraq più stabile, avrebbero in programma di ridurre la presenza delle truppe, fino al ritiro completo nel 2011. Ieri si sono ben tenuti lontani dalle città, alla prova era anche l’esercito iracheno e la polizia che ha saputo dimostrare di essere in grado di affrontare una giornata difficile come quella del voto, ma che ora deve trovare il modo di far vivere agli iracheni una vita che non sia con un militare ogni cento metri.
«Siamo di Baghdad, ma veniamo dal Kurdistan e abbiamo votato per la lista curda», ci dice una coppia, Fauzla Muham e Nazar Abdulani. Accando passa anche una donna povera con i vestiti a brandelli, ma il dito macchiato. «Mi hanno detto di votare Allawi e così ho fatto». Impossibile un voto perfetto, moltissimi sono stati offerti in cambio di favori o di un lavoro, molti poveri hanno ottenuto un po’ di soldi e un po’ di riso per votare l’uno o l’altro candidato. Ma quello di cui tutti sono convinti è che il passato non deve tornare. Hanno votato per il futuro gli iracheni e ora spetta ai politici dimostrare che il voto di questa gente non andrà perduto.