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 2010  marzo 10 Mercoledì calendario

SERGIO ROMANO

Le confessioni di un conservatore di Umberto Brindani per Oggi, 10 marzo 2010, pag. 32

Sergio Romano è noto a tutti come "l’ambasciatore". Perchè questo ha fatto, per gran parte della vita, fino a diventare un nostro rappresentante diplomatico a Mosca negli anni cruciali di Michail Gorbaciov. E’ parso curioso ad alcuni, dunque, che proprio a lui sia stato assegnato per il 2010 il premio "E’ giornalismo", il più prestigioso tra i riconoscimenti per chi lavora nel mondo dell’informazione (il premio, animato dall’imprendiotre Giancarlo Aneri, ha come "soci fondatori" i tre numi tutelari di questa professione: Giorgio Bocca, Enzo Biagi e Indro Montanelli). Curioso? In realtà, a ben guardare difficilmente si poteva fare una scelta migliore. Sergio Romano, vicentino di 80 anni, oggi è editorialista del Corriere della Sera e tiene ogni giorno sul principale quotidiano italiano una seguitissima rubrica di dialogo con i lettori. Ma soprattutto, è un commentatore al quale - circostanza rarissima - non si possono attribuire appartenenze o patenti di fedeltà a questa o quella parte politica.

Come la devo chiamare, quindi? Ambasciatore o... collega?
"Sergio Romano basterebbe?"

Signor Romano, allora...
"Beh, non si può. Perchè c’erano solo due istituzioni che tolleravano il "signor", anzi lo imponevano come regola della casa: la Banca Commerciale e la Marina Militare. Solo lì si poteva dire "signor Tale" senza offendere".

Cosa ha pensato quando ha saputo di aver vinto il premio "E’ giornalismo?": si è stupito?
"Per la verità io mi sono sempre sentito giornalista. L’ho anche fatto, da giovane, ma non sono stato fortunato. Al Popolo, diretto da Mario Melloni, prima che diventasse Fortebraccio, seguivo la giudiziaria. Poi venni assunto come praticante al Mondo Nuovo, e dopo dieci mesi il giornale chiuse. Alberto Mondadori mi chiamò per Epoca, ma in quel periodo non ero in Italia. Frustrato, me ne andai a studiare negli Stati Uniti. Lì qualcuno mi parlò della carriera diplomatica. Tornato in Italia, feci il concorso e lo vinsi. Diventai diplomatico per frustrazione, ma avrei voluto fare il giornalista".

Sliding doors, dicono gli anglosassoni...
"Certo. Avrei potuto avere una vita del tutto diversa. E pensi che la carriera diplomatica, soprattutto allora, era praticamente ereditaria, mentre mio padre faceva l’amministratore delegato della Saiwa, l’industria di biscotti di Genova".

Ha qualche rimpianto?
"La diplomazia mi ha subito catturato. Ho lavorato a Londra, sono stato dieci anni a Parigi, e ho sempre continuato a scrivere".

Poi si è trovato a Mosca negli anni del grande cambiamento.
"Sono arrivato lì nel settembre 1985, Gorbaciov era stato eletto segretario generale del partito pochi mesi prima. In quel periodo colpiva soprattutto il suo stile innovativo: Gorbaciov esordì con una serie di viaggi all’interno del Paese, per cercare il contatto con la gente, cosa che nessun altro segretario di partito avrebbe mai fatto. Poi, altra novità, viaggiava con la moglie. Le consorti nel sistema sovietico non apparivano. Le alte gerarchie celebravano la giornata delle donne con un ricevimento esteso alle mogli degli ambasciatori stranieri, in una elegante dacia dove le signore ballavano con le signore. I mariti? Esclusi. Era un party femminile. E quello era il femminismo sovietico nella sua migliore espressione".

C’era la percezione della rivoluzione in arrivo?
"Oh, c’era sì. Proprio perchè più delle parole contavano questi dettagli di stile".

Lei ha lasciato Mosca prima della caduta del Muro...
"Sì, nel marzo 1989, alla vigilia delle prime elezioni pluraliste volute da Gorbaciov".

E’ rimasto in contatto con lui in seguito?
"Gorbaciov è sempre stato molto gentile con me, ma io altrettanto critico verso di lui. Non ho mai creduto in Gorbaciov. Non perchè non avessi stima della persona, anzi. Ma non capivo dove andava a parare. Non sarebbe corretto affermare "io l’avevo detto, che sarebbe fallito". Però avevo fortissimi dubbi".

Ha fallito personalmente, ma è stato il protagonista di una vera rivoluzione.
"No, l’ha provocata inconsapevolmente. Era convinto che bisognasse tornare al comunismo puro che era stato in qualche modo tradito dai successori di Lenin. Ora, il comunismo puro non c’è mai stato in Unione Sovietica! Gorbaciov voleva tornare ai soviet: quali? E tutto allo scopo di rendere l’intero apparato economico finalmente efficiente. La perestroika era questo. Da subito, naturalmente, alcune Repubblice baltiche e del Caucaso dissero: volete meno centralismo, più autonomia? Bene, noi siamo attrezzati. Ed è cominciato subito un fenomeno di secessionismo latente. La disintegrazione dell’Urss: è Gorbaciov che ne porta la responsabilità".

Un caso di eterogenesi dei fini?
"Esattamente. Tanto che in Parlamento finirono tutti i deputati potenzialmente secessionisti".

Dopo Mosca, lei ha chiuso con la carriera diplomatica, si è messo a fare il professore e a scrivere. Uno dei suoi libri si intitola Memorie di un conservatore. Cosa vuol dire definirsi conservatore oggi, in un’Italia in cui la destra sembra più "rivoluzionaria" di una sinistra pressochè immobile?
"Posso farle una confessione? Quando ho ripreso a scrivere a tempo pieno mi sono trovato nella situazione di chi si deve auto-qualificare, per avere un profilo politico. Bene: mi sono qualificato conservatore perchè era la sola sedia libera! In una società che aveva assorbito il credo democratico nella sua ortodossia più conformistica (per dire, neanche Gianni Agnelli avrebbe potuto spingersi più in là del partito repubblicano), io trovai che da conservatore potevo sostenere di essere liberale ma non egualitario.

La famosa uguaglianza delle condizioni di partenza della tradizione filosofica liberale.
"Sì. Perchè un conservatore liberale ritiene inevitabile che nella società si formino delle gerarchie, e che esse non rappresentino affatto una patologia ma piuttosto una necessità. Pensa che dirsi liberal-democratici, col trattino, sia un tentativo di tenere insieme due concetti tra i quali deve esistere una netta distinzione. E crede che termini come merito e qualità non siano parole vuote".

Molti la accostano a Montanelli, proprio con questa qualifica di conservatore e per l’attitudine a saper parlare a tutti, al di là delle appartenenze. Si sente in qualche modo vicino a lui?
"Può esserci consonanza, ma Montanelli fu anche tante altre cose. Mi è sempre piaciuta la sua capacità di smentirsi, di non apparire mai legato a un rigido meccano di idee incasellate, di sorprendere, di non essere scontato e prevedibile".

Ragionava sui fatti. Oggi non è facile trovare commentatori e opinionisti dotati di questa imprevedibilità. E’ d’accordo?
"Bisogna distinguere. Ci sono opinionisti che hanno un profilo professionale, come gli economisti o i giuristi. Tra le firme del Corriere, per esempio, Angelo Panebianco ha un profilo tutto professionale. Anche Ernesto Galli Della Loggia ce l’ha, ma quando scrive è meno visibile, mentre Piero Ostellino è limpidamente più schierato".

Pochi giorni fa lei ha scritto un editoriale sulla corruzione dilagante. Come se ne esce?
"Abbiamo una percezione sbagliata del fenomento della corruzione. Prima di tutto, è difficile quantificarlo. Aumentano le denunce? Può essere un dato da leggere a rovescio: più si ruba e meno si crede nell’utilità di denunciare. Dovremmo convincerci che la corruzione, da noi, tra alti e bassi, è endemica, e dovremmo piuttosto chiederci perchè in certi momenti l’opinione pubblica si indigna molto e in altri meno".

Beh, nelle ultime settimane la magistratura ha scoperto di tutto...
" Sì, ma se c’è, come credo, un amoralismo di fondo della società italiana, occorre chiedersi: perchè a volte l’opinione pubblica tollera meno ciò di cui è in qualche modo partecipe? Per tre ragioni. Anzitutto per la crisi economica: il metodo delle tangenti oggi fa più rabbia di cinque o dieci anni fa. Secondo, per un fenomeno tipico di tutte le democrazie occidentali: la diffidenza e il rigetto della cosidetta casta politica, che in Italia assume toni più drammatici a causa della fragilità del nostro sistema politico e della sostanziale mancanza di anticorpi. Terzo, la magistratura: essa non vuole fare un partito o un colpo di Stato, Berlusconi fa malissimo a dire queste cose. Ma la magistratura ha ambizioni: si sente supervisore della società, sacerdote della legalità, bocca del diritto. Può restare insensibile agli umori della società? No che non può. Anche perchè, oltre agli umori, le arrivano anche le denunce!".

Ci sarebbe una quarta ragione, legata alle responsabilità dei politici, non crede?
"Vede, il rapporto tra società e politica è difficile da decifrare. Non è possibile ignorare, per esempio, i dati sulla nostra bassa scolarità rispetto ad altri Paesi europei, o sulla scarsissima propensione a leggere i giornali. E poi c’è il Sud, il fattore che abbassa la media praticamente in qualsiasi misuratore statistico di qualità. Vogliamo dirlo? Al Sud il tasso di chi vota per ragioni clientelari è certamente altissimo".

Un vizietto che prende piede anche al Nord, sembra.
"Come diceva Sciascia, il siciliano Leonardo Sciascia, la linea delle palme sta salendo verso il Nord...".

Che cosa pensa di Silvio Berlusconi?
"Ha molti meriti. Ha cercato di cambiare il sistema politico italiano, e non mi interessa se l’ha fatto per ragioni di interesse personale. Ha tentato di raddrizzare un rapporto che si stava deformando tra potere giudiziario, legislativo ed esecutivo. Anche per questo molti italiani hanno riposto fiiducia e speranza in lui. Il problema è che a un certo punto ci siamo accorti che per raddrizzare questo rapporto avevamo scelto la peggiore delle personi possibili".

L’uomo sbagliato al posto giusto?
"Si può dire così. E continuerà a essere l’uomo sbagliato, perchè non ha nessuna intenzione di cambiare. Ma chi nell’opposizione pensa di abbatterlo per via giudiziaria sbaglia: non si aggira per via giudiziaria il mandato popolare".

Gianfranco Fini?
"Sulla cosidetta conversione di Fini non mi esprimo, sono cose che attengono alla coscienza e alla psicologia di una persona. Vedo però che sta tentando un’operazione politicamente intrigante. Prima ha reso "utlizzabile" per il sistema un partito che non lo era. Poi ha visto nell’anomalia Berlusconi una possibilità per se stesso, e ha cominciato a costruire il personaggio del principe ereditario. Tentativo inetressante. Ma uno può fare la cosa giusta sbagliando i tempi. Puntava alla fine della legislatura, ma Berlusconi è entrato in crisi prima. E tuttavia, come si fa a essere certi che il monumento sia traballante? Così Fini, spiazzato, è rimasto fermo. Forse non è il momento giusto, si sarà detto: il punto è che rischia di perderlo, il momento giusto".

Pier Luigi Bersani?
"Mi piace, è concreto. Come diceva Margaret Thatcher di Gorbaciov, quando questi ancora non era al potere, "è un uomo con cui si può fare business"".

C’è un altro protagonista del momento politico: Pierferdinando Casini. E’ anche lui nel gioco?
"E’ in gioco, certamente. Ma su Casini perdo l’obiettività, perchè il suo progetto istituzionale è il più pericoloso. E’ vero che siamo nel mezzo di una transizione incompiuta, ma il bipolarismo è una conquista che va difesa a tutti i costi, mentre Casini vorrebbe tornare a vent’anni fa. Bisogna convincersi che non il bipolarismo in sè, ma l’alternanza di governo è un grande fattore di moralità involontaria".

In conclusione, che consiglio darebbe oggi a chi è giornalista o vorrebbe diventarlo?
"Di essere "letterato" il meno possibile. Vede, tutti noi abbiamo spesso il problema dell’incipit di un pezzo. Ma pensi ai giornalisti anglosassoni: per loro non esiste, perchè cominciano sempre con le cinque w: chi, cosa, quando, dove, perchè. Il giornalismo non è il torneo dello scriver bene".