Marco Neirotti, La Stampa 3/3/2010, pagina 17, 3 marzo 2010
L’ULTIMA MOSSA DI OLINDO E ROSA
Preparatevi. Vi porterò in un lungo viaggio nella ferocia e nell’orrore», annunciò la mattina del 18 novembre 2008 il Pubblico Ministero Massimo Astori, aprendo la requisitoria con la quale chiedeva e otteneva l’ergastolo per Olindo Romano e Rosa Bazzi, imputati della strage di tre donne e un bambino, con un uomo salvo per miracolo e testimone fondamentale.
Fra quindici giorni, il 17 marzo, il «lungo viaggio» sarà interamente ripercorso in un nuovo teatro, la Corte d’assise d’appello di Milano. Ma nel nuovo teatro gli scenografi hanno preparato fondali diversi, inediti, personaggi rimasti in ombra alla «prima», e in ombra o comunque ai margini della scena ne verranno posti altri che in aula a Como erano in primo piano, a partire dal sopravvissuto Mario Frigerio, l’uomo che riconobbe Olindo quale massacratore.
I difensori - Vincenzo Nico D’Ascola, Fabio Schembri e Luisa Bordeaux - avevano già consegnato 500 pagine per la richiesta d’appello. Ora ne hanno depositate altre 150, minuziose nel setacciare ogni dettaglio e fitte di consulenze neurologiche, psichiatriche, medico legali, tecnologiche, firmate da professionisti di fama. Ecco il nuovo scenario: Frigerio poco attendibile, confessioni - poi ritrattate - fatte a tentoni, luoghi di aggressione diversi dalla versione del primo grado, sangue di sconosciuti, una pista alternativa abbandonata nonostante un testimone attendibile. «Una sentenza pronunciata su una costruzione piena di vuoti», dicono.
La testimonianza di Frigerio è il primo mutamento di scena. I legali contestano, con la perizia dell’ingegner Raffaele Pisani, l’interpretazione delle sue parole: non «è stato Olindo», ma «è stato uscendo», vale a dire che «è accaduto mentre uscivo». Ma non è tutto: l’esperto riscontra un segnale diverso dall’originale nel nastro fatto sentire in aula dalla Corte, una «deformazione del suono».
E se poi successivamente il teste conferma di aver riconosciuto Olindo, entra in gioco la consulenza del professor Piergiorgio Strata, Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Torino, che allega un lungo studio su «sensazioni, percezioni e loro rappresentazione nel cervello», sulla formazione della memoria, sul «falso ricordo» nelle testimonianze e sulla facilità con cui si può indurre a ritenere vere immagini inesistenti. Strata riprende parola per parola l’interrogatorio condotto dal Luogotenente Gallorini e conclude che ce n’è abbastanza per vederci un «pressante esercizio di immaginazione», un instillare il dubbio fino a una testimonianza dal valore discutibile sebbene convinta e in perfetta buona fede.
C’è anche una confessione, è vero, e piena di particolari. Gli avvocati la rileggono come se esaminassero una strada percorrendola, guardandola dai sotterranei, inseguendola dall’alto. E la trovano tortuosa, intricata, fatta di avanzamenti e ritorni e aggiustamenti per arrivare a una destinazione già definita. Schembri: «E’ come vedere lo studente che non sa la lezione e butta lì, ci prova e se il professore scuote la testa si corregge. Il cadavere era "in su". "No, mi pare in giù. Era proprio in giù». Dove su e giù stanno per supino o prono. Ancora Schembri: «Peccato non ci sia un video per vedere i visi di delusione o di assenso di chi li interroga».
Il professor Carlo Torre riesamina la tenda della stanza di Valeria Cherubini. Si era detto che era bucata. Lui evidenzia una lacerazione da taglio preciso di lama. Gli imputati dicono di averla uccisa sulle scale? Lì non c’è sangue, ce n’è invece vicino alla porta e non è di nessuno, vittime, imputati, soccorritori. E i primi due soccorritori sentono la donna gridare oltre il fumo e se grida è ancora viva. Colpita in testa e da un fendente che mozza la lingua, è viva e riesce a gridare? O grida perché è aggredita in quel momento? I due escono per prendere gli estintori. Lasciano tempo a chi c’è nella stanza di andarsene per il terrazzo.
E dal lato del terrazzo spunta un primo testimone che vede degli uomini in movimento. Un secondo, magrebino, un po’ oltre, vede arrivare due stranieri e un italiano. Sentito in caserma riconoscerà quell’uomo in Pietro Castagna, fratello e figlio di due vittime, ma questo riconoscimento non arriverà ai pm prima della confessione di Rosa e Olindo. Perché no? domandano i legali. In fondo i suoi telefoni erano controllati, c’erano versioni diverse e ribaltate sull’ora del suo ritorno a casa quella sera. Schembri spazza via sospetti di cinismo e ancor più la supposizione che si cerchi un colpevole alternativo e tanto meno in lui: «Non ci passa per la testa. Noi crediamo alla buona fede di Frigerio. E quando parliamo di Pietro Castagna, parliamo di un esempio di indagine che non ha seguito dubbi e interrogativi iniziali. Non è compito nostro sospettare chicchessia».
Il viaggio nell’orrore, in questo Appello, vedrà aggiungersi tarli nei legni della prima sentenza e porterà in scena partiture alternative, cercando di far crescere il coro del dubbio.