Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 02/03/2010, 2 marzo 2010
EPOPEA DI DUE EDITORI COLTI E «INUTILI» - A
parte casi eccezionali (la Feltrinelli e la Laterza, per esempio), l’editoria italiana è un esempio di come i conflitti e le incomprensioni generazionali abbiano consegnato ad altri interi patrimoni culturali (vedi Mondadori, Rizzoli, Rusconi). Nel caso di Giovanni e Vanni Scheiwiller, le cose fortunatamente sono andate in modo diverso. Non si conosce un caso in cui il figlio sia stato tanto all’altezza del padre da rilanciare la casa editrice che il genitore aveva fondato. Un editore colto, che «unisce spirito anticipatore, dichiarato elitarismo e disinteresse per i successi del mercato», scrive Gian Carlo Ferretti nella monografia dedicata a Vanni Scheiwiller (appena uscita nei Libri Scheiwiller), il più grande dei piccoli editori. La casa editrice milanese nacque nel ’36 con la collana «All’insegna del Pesce d’Oro», dal nome della trattoria in cui Giovanni incontrava gli amici artisti. Erano libri di piccolo formato, esili ed eleganti, minilibri oggetto che si inaugurarono con 18 poesie di Sinisgalli e proseguirono con Esenin, Yeats, Gatto, Quasimodo e con plaquette e monografie d’arte. Tiratura tra le 250 e le mille copie, con margini quasi nulli di guadagno.
Nel ’51 l’impresa (si fa per dire) passò al figlio Vanni, «liceale aspirante giocatore di tennis», che si mise a girare l’Italia per distribuire personalmente i suoi volumetti a pochi intimi librai e per incontrare i suoi autori: con una sensibilità anticonformista per i nomi nuovi, sommersi, dimenticati, trascurati, rimossi, per le rarità e le curiosità di scrittori già affermati e senza preclusioni ideologiche o politiche. Proposito dichiarato, «costruire un piccola diga contro la massificazione della cultura, contro il conformismo della cultura di partito». L’editore «inutile», come amava definirsi Vanni, a un certo punto dovette pensare anche agli utili e per questo creò la Libri Scheiwiller, dove pubblicava impeccabili collane d’arte sponsorizzate dal mecenatismo bancario. Sarà la sua «svolta industriale»: persino lui, annota Ferretti, cominciò a capire che i libri si fanno anche per essere venduti. Non per questo abbandonò il suo temperamento provocatorio, portato all’ironia e qualche volta al feroce sarcasmo se non alla dura polemica. Come quando, dopo un’accesa discussione con Diego Fabbri, direttore della «Fiera letteraria», lo pregò «caldamente» di non occuparsi più dei libri Scheiwiller o quando nel ”69 si oppose alle «vecchie zie della cultura italiana» ben rappresentate nella giuria del premio Taormina colpevole di avere «anteposto» a Lucio Piccolo «un mediocre poeta sia pure edito da un grossissimo editore» e di avere premiato «un paio di morti, per paura di qualche vivo».
A dieci anni dalla sua morte (sembra un secolo: già allora, Scheiwiller era un uomo d’altri tempi, figurarsi oggi), esce anche un magnifico libro Skira, intitolato I due Scheiwiller, a cura di Alberto Cadioli, Andrea Kerbacher, Antonello Negri, che riproduce molte delle carte editoriali conservate al centro Apice dell’Università Statale di Milano.
Paolo Di Stefano