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 2010  febbraio 28 Domenica calendario

CHE SOLLIEVO NON FAR PIU’ L’INSERVIENTE

Casa e studio allo stesso indirizzo di New York. Eppure, all’ ultimo piano dell’ ex tipografia dove abita Maurizio Cattelan, a due passi dal mitico Chelsea hotel, non ci sono né l’ una né l’ altro, perché lo studio è dentro la casa e la casa è vuota. Un letto, un divano, un tavolo, qualche sedia; il resto sono grandi spazi bianchi, riempiti dallo skyline di New York che entra dalle vetrate a nastro. Non ci sono libri, dischi, televisore, cuscini, vasi, soprammobili, quadri. «Perché gli oggetti non sono morti come sembrano: in realtà richiedono energie. Adesso mi danno meno fastidio, ma quando vivevo a Padova non avevo nemmeno il letto: solo il frigorifero», spiega Cattelan. In realtà di libri ne legge tantissimi ma poi li regala perché preferisce che passino di mano in mano; la musica la tiene dentro il computer, mentre l’ arte in un magazzino: «Dopo un po’ la stessa immagine ti stanca: se un lavoro funziona lo misuri da quanto tempo riesci a tenerlo sotto gli occhi». Una sola cosa abbonda: i tappeti. «Perché quando devo pensare a un lavoro mi stendo per terra. A volte riempio il pavimento con centinaia di immagini e poi passo l’ aspirapolvere: è una cosa che mi piace molto perché è come pulire la lavagna. Dopo riesco a guardare le immagini in maniera diversa». Un’ ossessione della tabula rasa che si porta dietro da ragazzino quando, a 14 anni, buttò tutte le foto che lo ritraevano. «Non riuscivo a sopportare la mia faccia e nemmeno il mio nome», racconta. Anni dopo, quando aveva iniziato a fare l’ artista e preso l’ abitudine di rovistare nelle discariche (Vanessa Beecroft ricorda che lui le chiedeva di accompagnarlo e lei inorridiva) trovò per caso una sua vecchia foto di classe e cominciarono allora le serie ossessive di autoritratti, in tutte le maniere: sulla carta, nelle maschere, in cera, fino all’ alter ego del pupazzo Charlie. Qui in America, Cattelan è una star mentre in Italia, per i suoi detrattori, fra cui figurano Vittorio Sgarbi e Philippe Daverio, è solo un furbo che ha fatto fortuna grazie a un sistema dell’ arte basato sullo scandalo e la provocazione. Ma lui alza le spalle: «Non conosco nessuno che ha ottenuto qualcosa per niente. Qui tutti lavorano come matti, e io anche». Così, paradossalmente, l’ accanimento con cui la critica si scaglia contro le sue opere, finisce per accomunarlo a un grande come Caravaggio, anche lui ritenuto un provocatore, sebbene all’ epoca in cui l’ inquisizione bruciava Giordano Bruno, dipingere la Vergine nelle sembianze di una prostituta annegata nel Tevere era ben più pericoloso e blasfemo che fare la statua del papa colpito dal meteorite, il piccolo Hitler in preghiera o la donna che tutti hanno voluto chiamare crocifissa anche se non lo è. Eppure le opere di Cattelan suscitano reazioni feroci e vengono addirittura vandalizzate come succede solo per le icone feticcio della storia dell’ arte. «Ma io non provoco! La mia aspirazione è fare lavori che siano il massimo della sintesi: il libro perfetto dovrebbe avere sole cinque pagine e allo stesso modo io voglio fare lavori che parlino alla gente e però non siano popolari. Un’ opera funziona se ti attira e poi quando sei vicino e disarmato ti tira un cazzotto. Per esempio nello scoiattolo suicida, il sangue non si vede: alla prima occhiata può sembrare una fiaba, ma poi ti dà il cazzotto. Così per i bambini impiccati. La forza di quel lavoro stava proprio nel fatto che era esposto in una piazza. Insomma è importante quello che riesci a smuovere nelle persone, ma io non mi dico mai: adesso devo inventare una provocazione. Una volta esposta l’ opera, io stesso divento uno spettatore incosciente di come le altre persone l’ accoglieranno. Sono un tramite di qualcosa che non è sotto il mio controllo». Tuttavia, si parla già della sua prossima mostra a Milano, in autunno, come di un evento che susciterà ancora polemiche. «Farò un monumento di marmo contro tutte le ideologie e sarà l’ occasione per confrontarmi con un tema classico della storia dell’ arte, così come già ho fatto con le statue del cavallo e del papa. Mi interessa mettermi in relazione con questi micromovimenti della storia; il provocatore, al contrario ti aspetta con la sua aggressività per tirarti giù, ma io non ho quel progetto». L’ incredibile strada di Cattelan verso la fama mondiale è partita da Padova dove vendeva santini alla basilica del Santo, faceva l’ inserviente nelle corsie dell’ ospedale e poi nell’ obitorio. Al loft di New York c’ è arrivato da un letto infilato nel sottoscala di una casa minuscola, divisa con i genitori e due sorelle, la cui squallida cucina di fòrmica con il boiler è quella dove lo scoiattolino, alter ego dell’ artista, si suicida (l’ opera Bidibibodibiboo). In effetti, la sua vita somiglia a una fiaba: «Fiaba? La fiaba è una storia bella; direi che la mia, invece, fa paura. Il successo per me non rappresenta un riscatto, ma l’ indipendenza economica che mi ha garantito di non dover tornare a fare le pulizie». Allora avrà paura di perderla? «No, non la perdo più. So che domani posso fare venti lavori diversi: potrei aprire un albergo, fare l’ art dealer, l’ editore o chissà che altro». Dunque qual è la sua paura? «Passando molto tempo da solo, la solitudine è pesante, ma può esserlo altrettanto stare con le persone. Sono sempre stato molto da solo e mi va bene così». Effettivamente il pittore Francesco Clemente, gran frequentatore della mondanità newyorkese, dice di apprezzare la timidezza di Cattelan, ma è difficile credere che un uomo famoso riesca a isolarsi. «Non posso sottrarmi per esempio ai party del Guggenheim, ma per il resto cerco di saltare tutto questo genere di relazioni». Chi frequenta, allora? «Vedo gli amici soprattutto col computer, via Skype: sono per lo più persone disordinate, squilibrate come me. Qui a New York incontro un artista che è veramente fuori di testa; di recente sono stato all’ Outsider fair, una fiera di sconosciuti al sistema dell’ arte. Molti di loro sono geniali e mi piace sostenere i loro lavori, ma spesso non ce l’ hanno fatta perché hanno dietro storie di malattie mentali e alcuni sono morti in ospedali psichiatrici». Eccoci alla principale ossessione di Cattelan: la morte. Lo scoiattolo suicida, i bambini impiccati, i nove corpi avvolti dalle lenzuola, JFK nella bara con i piedi nudi e anche l’ ultima nata, Noi, il suo stesso corpo duplicato nel letto di morte, esposto poche settimane fa a Houston. Tutti lavori da cui sembra riemergere ogni volta in una forma diversa il trauma di Cattelan bambino abbandonato alla nascita dalla mamma, ricoverata in ospedale per un intero anno. Una mamma dalla quale Cattelan non ricorda baci e che stava per morire nello stesso ospedale dove lui lavorava all’ obitorio. La portarono a casa il giorno prima. Achille Bonito Oliva si è accorto che il percorso di Cattelan si sta facendo sempre più religioso e siccome tutto il suo lavoro è autobiografico, una inconsapevole messa in scena delle ferite infantili, forse diventa importante rivelare un altro particolare privato, e cioè che nella vita di Cattelan ci sono una sorella focolarina e una mamma che aveva desiderato essere suora. Cattelan si è confessato troppo e scoppia a ridere: il riso è infatti la forma più peculiare della sua vulnerabilità. Come il quinto atto di una tragedia greca, anche Cattelan non lascia mai alla morte l’ ultima parola; meglio piuttosto imbalsamarla, metterla in scena nella cera o nel marmo e beffarla trasformandola in uno spettacolo. Che cosa vorrebbe dunque ancora dalla vita? «Trovare la serenità dentro di me. L’ unica cosa con la quale te ne vai da questo mondo. Più invecchi più ti rendi conto che le cose non ti proteggono: possono indurti a credere che ti aiutino, ma non ti salvano».
Francesca Bonazzoli