Pierluigi Battista, Corriere della Sera 22/02/2010, 22 febbraio 2010
TUTTI CONTRO LA REGINA DEI QUADRI - A
Roma era la regina dell’arte contemporanea. Una Regina di Quadri, come recita l’efficace titolo della biografia, «vita e passioni» di Palma Bucarelli, scritta da Rachele Ferrario, che Mondadori porterà tra qualche giorno in libreria. La Regina di Quadri faceva strage di cuori. Era elegante, algida, spietata, autoritaria. Attirava su di sé ostilità furibonde. Aggirò con sagacia gli scogli del fascismo. Nei sotterranei di Castel Sant’Angelo mise in salvo le opere d’arte durante la guerra e l’occupazione tedesca. Fu messa alla prova dalle durezze e dai dogmatismi della politica dell’Italia democratica.
Senza di lei la Galleria nazionale d’arte moderna non sarebbe stata quel che è diventata, e forse non avrebbero trovato adeguata accoglienza, in un’Italia ancora molto conservatrice e tradizionalista, artisti come Alberto Burri e Piero Manzoni, Jackson Pollock e Mark Rothko.
Raccontare la storia di Palma Bucarelli, una vita all’incrocio di arte e letteratura, accademia e politica, giornalismo e mondanità, è descrivere un pezzo importante della vicenda culturale italiana. E la ricca documentazione inedita su cui poggia la ricerca della Ferrario restituisce particolari che illuminano il ruolo di quella donna «bella come una gatta siamese», come scrisse Giuseppe Ungaretti che ne rimase incantato. Incantato e stregato come Paolo Monelli, che intrecciò con la Bucarelli un legame interminabile, ma avvelenato dalla gelosia. Come Vittorio Gorresio, che ne soffrì inconsolabilmente. Come Giulio Carlo Argan, che condivise con lei sventure, passioni e anche segreti inconfessabili. Come Alberto Savinio, che la raffigurò, scrive la Ferrario, «in una delle immagini più inquietanti che di lei siano state tramandate, cogliendone il tratto rapace e la spregiudicatezza dell’intelligenza». Lei era ritrosa e altera, sin troppo consapevole della sua sofisticata bellezza. «Dicono che somigli a Greta Garbo, invece è lei che somiglia a me», ebbe a dire con una certa spavalderia. Donna bella e corteggiata, anche se maniacalmente incline a una difesa spasmodica della propria indipendenza, Palma Bucarelli fu anche bersaglio di maldicenze e malignità. Come quelle che si sprecarono quando nel 1938 l’allora ministro dell’Educazione nazionale Giuseppe Bottai richiamò a Roma la «signorina» su sollecitazione di Monelli. «Caro Monelli, in relazione alle tue premure, mi è gradito comunicarti di aver disposto il trasferimento della Dott.ssa Palma Bucarelli dalla Soprintendenza alle Gallerie di Roma», scrisse il gerarca. Era l’inizio del regno della Bucarelli sull’arte romana. A Roma si mormorava di conturbanti segreti tra il ministro fascista e la «regina di quadri». Ma lei non ne soffriva. Anzi, non si ritirava dalla sfida. Nel ”40, alimentava con civetteria il pettegolezzo politico-mondano proprio con il gelosissimo Monelli: «Bottai mi sorrideva». Anche il gerarca abbacinato dal fascino della Bucarelli?
Nell’Italia democratica del dopoguerra le verranno rinfacciate costantemente sviolinate un po’ troppo laudatorie sul fascismo: riflesso di un rapporto tempestoso che la Bucarelli ha intrattenuto con la politica, che non l’amò mai molto. Non l’amò la sinistra e il Pci in particolare. Renato Guttuso la accusava, a causa della sua passione per l’astrattismo e per l’avanguardia (e in Italia per gli avversari Dorazio e Consagra, Vedova e Turcato), di allontanarsi con eccessivo fervore dai dettami del realismo socialista. Antonello Trombadori, con la sua schietta irruenza, non perdeva occasione, sui giornali e le riviste del comunismo italiano, per criticare la gestione della Bucarelli della Galleria nazionale d’arte moderna. Dovendo maneggiare denaro pubblico, la Bucarelli si ritrovò in più di un’occasione nel mirino dei deputati del Pci, che le scagliavano addosso interrogazioni parlamentari molto somiglianti a pubbliche sconfessioni. Ma gli attacchi politici le giunsero trasversalmente. Quando nel ”59 fece esporre il «Grande Sacco» di Alberto Burri, il settimanale di destra «Lo Specchio» accompagnò un servizio velenoso con questo titolo sprezzante: «La signorina adora gli stracci». Negli stessi giorni, dai banchi comunisti in Parlamento si chiedeva con disgusto politico-estetico «quale cifra è stata pagata dalla Galleria per assicurarsi la proprietà della vecchia, sporca e sdrucita tela da imballaggio che sotto il titolo di "Sacco Grande" è stata messa in cornice da tale Alberto Burri».
Con la «Merda d’artista» di Piero Manzoni esposta nel 1971, le cose precipiteranno in un gorgo di polemiche destinate a oltrepassare la soglia della scurrilità. «Anche se inscatolata a tutela dell’igiene pubblica», l’opera del Manzoni «è frutto obbligato di una normale digestione, quali garanzie ha il pubblico circa la sua autenticità?», chiese con greve sarcasmo il deputato democristiano Guido Bernardi. E ancora, l’onorevole dc contestava «l’uso che la signora Palma Bucarelli fa da troppo tempo del denaro del contribuente italiano. Non è il caso di tirare finalmente la catena?». La Bucarelli si indignò. Rachele Ferrario ha scoperto tra i documenti una lettera da lei mandata a Giulio Andreotti, ma quest’ultimo non sembrò molto intenzionato a difendere la Bucarelli. Anzi, le scrisse: «Se sono vere le frasi a Lei attribuite dai giornali, ne nascerebbe una censura verso tutta la cosiddetta classe politica». Altro che difesa.
La Bucarelli aveva portato in Italia Alexander Calder e il pop americano, si era dedicata a mostre importanti di Kandinskij e Picasso e aveva aperto ai giovani artisti di Piazza del Popolo, da Mario Schifano a Tano Festa, da Mario Ceroli a Lucio Fontana. Ma non riuscì mai a placare le ostilità nutrite da folte schiere di nemici. Come Peggy Guggenheim, che di lei scrisse, perfida: «Non conosceva niente sull’arte moderna, ma aveva lavorato molto negli ultimi anni per organizzare mostre e comprare quadri». Come Giorgio De Chirico, che detestava «la benemerita dottoressa Bucarelli», colpevole di coprire, con la complicità del maestro Lionello Venturi, «le asinerie dei modernisti d’Italia» (ma anche, dicevano i maligni, di aver preferito le opere di Giorgio Morandi alle sue). Come Federico Zeri, che non ne farà passare una alla «pensionata Bucarelli», malata di «alta cultura internazionale e cosmopolitismo tipici del ceto impiegatizio a estrazione piccolo borghese cui appartiene».
Si vociferava addirittura che Zeri avesse concepito la celebre beffa dei falsi Modigliani per deridere la coppia Bucarelli-Argan, già vittima di un incidente di attribuzioni in una mostra sul grande artista livornese. Sono solo dicerie, certo. Ma che danno il senso di una guerra spietata. Una guerra estetica di cui la Bucarelli è stata protagonista e combattente. Un capitolo decisivo della storia culturale italiana.
Pierluigi Battista