Lauretta Colonelli, Il Corriere della Sera 21/2/2010, 21 febbraio 2010
NEL BAR DI EDAWRD HOPPER PER BRINDARE ALLA MOSTRA DEI RECORD
ROMA - Chi avesse intenzione di visitare la mostra di Edward Hopper si prepari ad entrare fisicamente in un quadro dell’ artista americano. All’ ingresso della Fondazione Roma Museo, dove la rassegna antologica è arrivata dopo l’ allestimento milanese che ha attirato oltre 180 mila visitatori, è stato infatti ricostruito il celeberrimo bar dipinto nel 1942 da Hopper nel quadro intitolato «Nighthawks».
Si può dunque oltrepassare la vetrina ad angolo ed unirsi ai «nottambuli» - due uomini con il cappello e una donna dai capelli rossi più il barman, raffigurati da manichini a grandezza naturale - che sono appoggiati al bancone a bere qualcosa, immersi nel gioco di colori sotto la fredda luce al neon che rischiara il locale.
La ricostruzione è soltanto una delle novità della rassegna romana, rispetto a quella milanese. Alle centosessanta opere già esposte a Palazzo Reale si aggiungono infatti altri capolavori dell’ artista, quali l’ intenso «Self-Portrait» del 1925-30, che confrontato con gli autoritratti precedenti esposti nella stessa sala fa capire quanto Hopper avesse maturato il suo stile, passando dai riferimenti iniziali alla ritrattistica seicentesca, con i colori che traevano luminosità dal fondo nero, ad accordi cromatici sapientemente dosati che fanno emergere la figura da un fondo chiaro con la stessa intensità. Quando realizzò quest’ opera, Hopper aveva tra i quaranta e cinquant’ anni.
Era nato nel 1882 a Nyack, una cittadina sul fiume Hudson a quaranta chilometri da New York, da una colta famiglia di commercianti di tessuti. Aveva studiato pittura con gli insegnanti più famosi di New York e nel 1906 era volato a Parigi, dove restò affascinato dalla tecnica degli impressionisti e dalla città, tanto che tre anni dopo decise di tornarci per sei mesi. Al periodo parigino è dedicata una intera sala della mostra, con dipinti che lasciano incantati per la felicità che trasmettono. Siamo ancora lontani dalle atmosfere spesso livide di certi interni americani, dei paesaggi dove l’ orizzonte è nascosto da file di palazzoni popolari, dalle atmosfere notturne descritte con colori acidi. Nelle vedute dipinte a Parigi i cieli sono chiari, il sole pulito.
In «The Wine Shop», si intravede sullo sfondo una lingua di mare e quattro alberi fanno ondeggiare le chiome oltre il ponte. Nell’ angolo della tela, riparati alla piccola ombra di un fabbricato affacciato sul fiume, un uomo e una donna bevono un bicchiere di vino. Par di sentire la frescura dell’ acqua e l’ odore della salsedine che li circonda. Tra i dipinti aggiunti nell’ esposizione romana anche «The Sheridan Theatre» del 1937, «New York Interior» del 1921, «Seven A.M.» del 1948, South Carolina Morning del 1955, Second Story Sunlight del 1960, «Pennsylvania Coal Town» del 1947. Il percorso è stato curato da Carter Foster, conservatore del Whitney Museum, dove sono ospitati oltre tremila dipinti di Hopper. Foster ha organizzato una rassegna che attraversa tutta la produzione e tutte le tecniche dell’ artista considerato ormai un grande classico della pittura del Novecento.
Si passa dalle prime opere a quelle dipinte poco prima della morte, avvenuta nel 1967. Hopper lavorò per sessant’ anni e i suoi quadri hanno ispirato pittori, poeti e registi. Quadri che lo scrittore John Updike ha definito «calmi, silenti, stoici, luminosi, classici». Tra i più suggestivi, quelli in cui compaiono donne immerse nel sole, figure femminili che hanno tutte il volto della moglie Josephine Nivison, una vivace pittrice sposata nel 1924 all’ età di quarantadue anni (lei quarantuno). Donne che sembrano perennemente in attesa di qualcosa, guardano intensamente fuori dalle finestre di camere disadorne, si sporgono dai balconi di case isolate e il sole che prorompe sui pavimenti, sui letti disfatti, sulle scale d’ ingresso, sembra la loro ancora di salvezza.