STEFANIA MARTANI, la Repubblica Affari&finanza 22/2/2010, 22 febbraio 2010
OGM CONTRO BIO
«Noi diciamo sì alla via italiana alla ricerca sulle biotecnologie, purché sia senza Ogm: ricordiamo che esiste la possibilità di scegliere applicazioni biotech alternative alla transgenesi». Fabrizio Fabbri, direttore scientifico della Fondazione Diritti Generici, ci tiene molto a tenere il dibattito su un piano di pacatezza. Ma certo, dopo la sentenza del Consiglio di Stato che ha chiesto al governo di pronunciarsi in tempi brevi, la polemica sugli Ogm infuria. E ora si apre il nuovo fronte: «La micropropagazione dice Fabbri di piante ottenute da culture cellulari selezionate, ad esempio, oltre ad essere una tecnica poco costosa, è facilmente accessibile agli agricoltori dei paesi in via di sviluppo come dimostrano i piccoli centri di produzione di "plantule" destinate al mercato locale in Vietnam ed alcuni Paesi africani quali Mali e Gabon». Del resto, ricordano gli scienziati, se il mercato degli Ogm si avvicina ai 9 miliardi di dollari, quello dei prodotti biologici ha raggiunto un valore di oltre 50 miliardi.
Le conoscenze di genetica e biologia molecolare, continua lo scienziato, possono inoltre essere usate per selezionare varietà grazie all’assistenza di marker molecolari, le cosiddette Mas, che si sono rivelati particolarmente utili per selezionare varietà vegetali con accresciute capacità produttive, di resistenza agli attacchi parassitari, di tolleranza alla salinità o con migliorate qualità nutritive. Dal 2000 ad oggi, almeno ventisette varietà vegetali migliorate con l’uso della selezione assistita da marker molecolari sono state immesse sul mercato ed utilizzate in diversi Paesi, molti dei quali in via di sviluppo». L’investimento della ricerca italiana sulle biotecnologie alternative alla transgenesi potrebbe, quindi, «offrire l’opportunità di dare vita ad un mercato agroalimentare concorrente ed innovativo, in grado di contribuire a rispondere alle esigenze ambientali e sociali valorizzando, al contempo, le produzioni di qualità tipiche del made in Italy».
Il piatto, a guardare i dati, è davvero ricco: un giro d’affari, quello degli Ogm, che frutta globalmente circa 8,3 miliardi di dollari, in aumento rispetto ai 7,5 del 2008, con la prospettiva di toccare nel 2010 i 9 miliardi. Ma le controversie sono davvero tante. Se l’India ha respinto la «brinjal bt», la melanzana geneticamente modificata, perché ritiene non sicure le varietà «bt», la Francia e la Germania hanno proibito il mais Ogm Mon (che sta per Monsanto) 810. E a ben guardare, a fronte di un fatturato di semi biotech crescente (di cui Monsanto, Du Pont, Syngenta, Bayer Crop Science e Dow detengono la quasi totalità) c’è anche il giro d’affari, per esempio, dei mangimi etichettati Ogmfree che è salito in un solo anno del 67% nei soli Stati Uniti, peraltro patria del biotech. Un aspetto, questo dei controOgm, particolarmente rilevante per l’Italia: solo il gruppo Coop paga ai suoi fornitori di carni di animali esplicitamente allevati con mangimi non Ogm quasi 600 milioni l’anno. E la filiera delle uova provenienti da allevamenti ogmfree fattura altri 30 milioni.
A proposito di grandezze economiche ci sono da considerare i le multe: a 3,5 milioni di dollari ammonta quella che in virtù di due distinte sentenze di tribunali statunitensi, Bayer CropScience dovrà pagare ai produttori di riso statunitensi contaminati dal suo riso transgenico. Un calcolo magari non proprio di una fonte sempre oggettiva come Greenpeace, ma comunque indicativo quantifica il "Risky Business" della stessa Bayer, a livello mondiale, tra 741 milioni e 1,285 miliardi di dollari. Sebbene l’Europa si muova con precauzione in tutto il continente europeo le coltivazioni di Ogm sommate non corrispondono neppure alla superficie del comune di Roma, e lo stesso bacino del Mediterraneo (Egitto a parte) ne è ancora indenne è però in corso una sorta di penetrazione occulta di Ogm attraverso i mangimi destinati alla zootecnia: oltre il 90% dei prodotti Ogm importati in Europa è costituito da semi di mangimi per la zootecnia (ogni anno, 20 milioni di tonnellate di Ogm entrano così nella catena alimentare degli europei). Tuttavia anche per i mangimi l’alternativa Ogm free è esistente e copiosa (solo il Brasile produce 25 milioni di tonnellate di soia non transgenica destinate soprattutto all’Europa) e normative come quelle adottate in Germania e Austria sull’etichettatura di prodotti zootecnici Ogm free che entreranno in vigore dal primo luglio 2010, dimostrano che dare un quadro chiaro ai consumatori premia tali produzioni (Campina, la prima azienda casearia d’Europa le ha abbracciate con convinzione).
I volumi che riguardano i mangimi Ogmfree in Italia sono di tutto rispetto: 148mila tonnellate l’anno di soia; mentre sono ben 19 milioni i capi nutriti con mangimi Ogmfree. E se è vero che qualche volta i costi della filiera Ogmfree sono più elevati rispetto a quelli transgenici, questo aumento, assicurano gli esperti, è minimo. «Il ricorso da parte degli allevatori italiani a mangimi certificati privi di Ogm prodotti in Brasile sostiene Fabbri comporterebbe un onere aggiuntivo del 10% sul solo costo della soia ma un aumento medio del prezzo della carne al dettaglio di appena un centesimo al chilo, mentre l’uso di materie prime transgeniche comporta un utile solo per le aziende che le producono». La conferenza europea tenutasi di recente a Bruxelles sui mangimi Ogmfree, si è svolta all’insegna della creazione di un sistema indipendente di importazione di mangimi «puliti» in Europa. «Per quanto centrale nei sistemi mangimistici attuali spiega l’agronomo Luca Colombo, che collabora con la stessa Fondazione la soia può essere sostituita da altre colture ricche in proteine coltivabili in Italia che hanno, tra l’altro, il merito di ripristinare la fertilità dei suoli». In Italia sono già stati compiuti studi per incentivare una produzione libera da Ogm, come una sperimentazioni promossa dal Centro di ricerche per la produzione animale di Reggio Emilia, che ha coinvolto 16 regioni e che riguarda colture come il pisello proteico, il favino e il cece. Un’indicazione degli orientamenti dei consumatori viene del resto dalla crescita del biologico, con tre milioni di ettari in più rispetto al 2008 e 1,4 milioni di produttori.