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 2010  febbraio 22 Lunedì calendario

DAI BERLUSCONI AGLI AGNELLI LA CRISI DELLA FAMIGLIA SPA IL CASO

Il caso Berlusconi, ma non solo. L’Italia delle imprese familiari – una Spa gigantesca che vale da sola il 60% del tessuto industriale del nostro paese – è arrivata al bivio. I padri invecchiano (quasi la metà dei capiazienda ha più di 60 anni), le famiglie si allargano, le nuove generazioni litigano. E passare il testimone – come sta sperimentando sulla sua pelle in questi mesi il Cavaliere – è sempre più complicato. Il metodo Warren Buffett – 60 miliardi in beneficenza e un contentino di pochi milioni ai rampolli («devono imparare ad arrangiarsi da soli», ha sentenziato pedagogico il guru di Omaha) – qui da noi non tira più di tanto. I figli – bamboccioni o no – so’ piezz’e core. E così metà delle blue chip di Piazza Affari e dintorni, in vista della pensione dei loro fondatori o degli eredi di seconda generazione, stanno lavorando in questi mesi per risistemare e ringiovanire gli assetti di famiglia. Cercando di disinnescare i potenziali psicodrammi di cui è lastricata – dai Garavoglia (Campari) ai Marzotto fino alle scintille in casa Agnelli – la storia delle successioni nelle dinastie imprenditoriali del Belpaese. Il premier, con due famiglie, cinque figli e una richiesta di separazione sul tavolo, ha le sue belle gatte da pelare. Ma il tema dell’ascesa al potere delle nuove generazioni è all’ordine del giorno con più o meno urgenza in casa Benetton, Moratti, Tronchetti, Ligresti, Caltagirone, Del Vecchio, De Agostini e Ferrero, solo per fare alcuni nomi.
La posta in gioco è altissima. Dietro i nomi patinati, la Famiglia Spa è in Italia un business che dà lavoro a quasi tre milioni di persone. E al di là dei destini e dei portafogli dei soci di controllo, la loro sopravvivenza – e magari pure la loro crescita – ha ripercussioni sociali di grande importanza. Il 60% delle imprese tricolori di questo tipo, sostiene PriceWaterhouse, non ha predisposto piani di successione (sono solo il 44% in Usa). Un errore. Perché come spiega Guido Corbetta, docente di strategia aziendale in Bocconi e titolare della cattedra sulle aziende familiari, la chiave per evitare testacoda nei passaggi generazionali è semplice: «Fare fatica, ma scegliere in anticipo a chi affidare il timone dell’azienda». Sfruttando il carisma e l’autorevolezza dei campi di famiglia per non affidare a un’assemblea di cugini, nipoti, generi, nuore e parenti affini il futuro di un gruppo.
Gli strumenti a disposizione, in teoria, sono tanti. Ci sono i patti di famiglia («che però funzionano male», ammette Corbetta), quelli prematrimoniali, gli interventi sugli statuti («per me il metodo oggi più efficace», sostiene Uberto Barigozzi, titolare di uno dei più noti multifamily office di Milano). Ma l’arma segreta è quella sfoderata dall’Aidaf, l’associazione delle aziende familiari, che ha presentato sul tavolo di Gianni Letta una legge per la revisione della legittima (la quota di eredità che va di diritto a moglie e figli). Obiettivo: lasciare in mano al capostipite da distribuire a piacere tra gli eredi almeno il 50% del suo patrimonio. Consentendogli così di decidere a chi affidarne il controllo. ««Un modo per evitare quei conflitti che in tanti casi hanno portato alla scomparsa di antiche realtà industriali», dice Gioacchino Attanzio, presidente Aidaf. Una norma nata da un certosino lavoro di legali e professori universitari, destinata certo – se approvata – a risolvere qualche grattacapo al premier. Ma in grado forse di stabilizzare un po’ di più un universo di imprese che tra globalizzazione e baruffe tra fratelli coltelli non brilla troppo per longevità, visto che «solo il 7% delle imprese familiari – calcola Corbetta – ha più di 50 anni» mentre l’80% – dice Attanzio – «scompare entro la terza generazione».
Gli scettici, naturalmente, non mancano. I detrattori della norma taglialegittima ricordano che in un’era dove l’innamoramento senile è sempre in agguato e il curriculum sentimentale di molti capifamiglia ha il copione di un serial alla Beautiful, lasciar loro troppo potere comporta dei rischi. Per informazioni basta chiedere ai figli di Liliane Bettancourt, ottuagenaria azionista di controllo de L’Oreal, arrivati alle carte bollate dopo che la madre ha regalato un miliardo di euro a un giovane amico fotografo.
«Il controllo azionario però non è il solo problema – dice Barigozzi – Il vero nodo è separare bene i socimanager, che si prendono il rischio di impresa, dai rentier, quelli che puntano solo a incassare un dividendo costante». Il metodo? «Basta creare azioni di categoria diversa, ad esempio, per ridurre al massimo il rischio di frizioni».
Le grandi famiglia italiane affrontano il tema in ordine sparso. I più sofisticati sono i Boroli Drago, titolari del gruppo De Agostini. La cassaforte di famiglia ha una tribù di 42 soci, con 59 parenti coinvolti a vario titolo. Le regole però sono ferree. Due percorsi professionali. Il primo, per chi punta a posizioni da manager, prevede un Mba in uno dei 50 corsi più prestigiosi della classifica Financial Times e inglese perfetto. Il secondo, con asticelle più basse, è tracciato per chi cerca solo collaborazioni o parttime. Gli scatti di carriera vengono approvati da una commissione interna. E solo in 10, per ora, hanno passato l’esame per entrare nei quadri dirigenti di Novara. Gli altri si sono messi il cuore in pace, fanno altri mestieri e si godono, quando ci sono, i dividendi. « la soluzione migliore per tenere l’armonia in casa – dice Corbetta – Scelte chiare e profitti. Perché quando le cose non funzionano a livello finanziario, tener insieme la famiglia non è mai facile».
I quattro fratelli Benetton hanno deciso invece di selezionare un rampollo a testa cui affidare la supervisione azionaria del gruppo, lasciando però le redini nelle mani di manager esterni. «Un manager si cambia, un figlio no», ha detto Luciano Benetton che di dirigenti, in effetti, ne ha macinati un bel numero. L’opposto, ad esempio, della scelta di Ingvar Kamprad (31 miliardi di patrimonio) numero uno dell’Ikea che ha messo in concorrenza tra di loro i suoi tre figli affidando ad ognuno un ramo d’azienda al grido di "vinca il migliore". Cui in futuro sarà affidato tutto il gruppo. Scelte accettabili in entrambi i casi anche se il trend della Famiglia Spa italiana, dopo un periodo in cui si tendeva a cedere la gestione ad amministratori delegati esterni, si è invertito. Anche perché come spiega in cifre un recente studio BocconiUnicreditAidaf, la redditività aziendale, in lieve calo con il passare delle generazioni, non cambia in realtà molto se al timone della società c’è un estraneo. «L’Italia non è l’America – conferma Barigozzi – Qui non da noi il bacino da cui pescare manager in gamba è molto ristretto».
Chiariti pesi e contrappesi dinastici sulla gestione, resta il nodo delle successioni. Una problema che qui da noi si tende ad ignorare, lasciando poi che siano gli eredi, con la scusa di una normativa che lega le mani ai capifamiglia, a sbrogliare la matassa. I guai di Arcore dimostrano che non è semplice trovare l’equilibrio complessivo giusto. Le scelte strategiche non sono sempre uniformi, come dimostra la recente dialettica transgenerazionale di casa Ferrero nella partita Cadbury, oppure i figli sono tanti e magari di moglie diverse, vale per Berlusconi ma ad esempio anche per Leonardo Del Vecchio, e così la quadratura del cerchio è sempre più complessa. Tanto che persino le dinastie più illuminate e lungimiranti sul tema, alla fine, rischiano il corto circuito: i Falck tra i fondatori dell’associazione aziende di famiglia e sponsor in Bocconi della cattedra di Corbetta (dedicata ad Alberto Falck) sono oggi impegnati in un acceso scontro tra rami familiari sul futuro di un gruppo traghettato peraltro senza traumi dall’acciaio all’energia.
Certezza, in fondo, non ce ne sono per nessuno. I rami francese e inglese dei Rothschild sono stati in guerra per 200 anni, malgrado abbiano celebrato, per cercare la pace, ben 16 matrimoni tra cugini primi. Poi nel 2007, business is business, si sono rimessi tutti assieme. E sposarsi, per tutti, è diventato un po’ più facile.