Mattia Bernardo Bagnoli, La Stampa 22/2/2010, pagina 19 Sandro Cappelletto, La Stampa 22/2/2010, 22 febbraio 2010
LA MUSICA CONTRO NATURA (2
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Buone notizie. Se la musica classica contemporanea, nonostante l’impegno, proprio non la capite, potete mettervi il cuore in pace: non è colpa vostra, ma del nostro cervello. Che quando deve analizzare gli input sonori va in cerca di precisi schemi ritmici e così facendo riesce a distinguere la melodia dal rumore. Il problema è che, a partire da autori come Arnold Schönberg, i compositori di sinfonie moderne hanno completamente stravolto l’andamento delle note, infarcendole per giunta di confusi suoni di sottofondo. Così il cervello non sa più cosa sta ascoltando, e fa fatica a classificare quel trambusto come musica. O almeno, questa è la teoria di Philip Ball, autore del volume «The Music Intinct – l’Istinto della Musica».
Ball, consultando le ultime ricerche svolte nel campo delle neuroscienze, si è infatti accorto che il rispetto di certe formule è essenziale per colpire nel segno e provocare un effetto di «piacere» nell’ascoltatore. Che in caso contrario rimane spiazzato. «Molte persone – ha spiegato al ”Daily Telegraph” – trovano tutt’oggi la musica classica contemporanea molto difficile da ascoltare. Bene: possono iniziare a rilassarsi. Questo accade non perché sono troppo ignoranti per apprezzarla. Il cervello è un organo che cerca schemi ricorrenti. Quindi, anche quando si tratta di musica, applica lo stesso metodo in modo da dare un senso a ciò che ”sente”. La musica di Bach, ad esempio, adotta configurazioni di questo tipo». I grandi maestri della classica tradizionale, stando alle teorie di Ball, componevano dunque, istintivamente, melodie «gradevoli» per il cervello, pur senza ridurre la qualità tecnica della composizione: le pensavano così.
Senza toni centrali
Il Novecento, però, nella sua costante ricerca di uno strappo alla convenzione, ha introdotto il concetto di musica atonale. Priva, cioè, di toni centrali. «Alcune delle innovazioni sperimentate per la prima volta da Schönberg – dice ancora Ball – hanno destrutturato il modello tradizionale tipo di architettura sonora». «La musica di questi compositori è diventata quindi più frammentata, e il cervello fatica a trovare una configurazione ritmica». Da qui l’avversione «naturale» dei non intenditori. «Ciò non significa, ovviamente, che sia impossibile ascoltare opere sinfoniche contemporanee: liquidarle come spazzatura sarebbe un errore. Ma sono più difficili da interpretare». Ora, critica e pubblico – ricorda il Telegraph – non hanno mai ricevuto con troppo ardore tali creazioni. Ma si sa, l’arte è arte proprio per la sua capacità di creare dibattito, per il suo intrinseco valore soggettivo. La scienza però corre dietro ai fatti, e che la musica atonale valga per la materia grigia comeuna maratona in alta montagna – si può fare, ma anche no – sembra ormai una certezza. Il cervello, infatti, è un organo molto preciso, che deve sbrigare mille commissioni contemporaneamente, e ha nel tempo sviluppato un suo metodo per fare le cose a modino. E questo vale per tutto, non solo per la musica. Ecco allora che, stando a quanto scoperto da Aniruddh Patel, ricercatore presso il Neurosciences Institute di San Diego, il sistema per esempio usato per decodificare note e parole è molto simile, condivide certi meccanismi.
Le note e la mente
«Questo – dice Patel – è uno dei motivi per cui la musica è congeniale alla mente umana. E può spiegare anche perché una composizione atonale risulta tanto ostica quando ascoltata per la prima volta ». Timothy Jones, vicedirettore della Royal Academy of Music, pare però più indulgente nei confronti della «dura» sinfonia contemporanea. «Mozart e Bach – sostiene – mostrano livelli di complessità simili a Schönberg, pur restando in domini musicali differenti. Mi domando quanto la familiarità con Mozart e Bach non dipenda da ragioni culturali più che dall’innata incapacità di comprendere Schönberg: certe persone possono imparare ad apprezzarlo». Siamo dunque ignoranti per natura o per pigrizia? David Huron, esperto in cognizione musicale alla Ohio State University, si è preso la briga d’indagare le ragioni che stanno dietro alle – cattive – reazioni di alcuni soggetti alle composizioni classiche atonali. E si è accorto che «il cervello, per la maggior parte del tempo, cerca di prevedere il futuro ». «Prevedere cosa potrà accadere di qui a un attimo – prosegue – ha un’ovvia importanza per la sopravvivenza e il cervello ha una straordinaria capacità nell’anticipare gli eventi». Huron ha quindi «misurato» la prevedibilità di sequenze sonore tratte da opere di Arnold Schönberg e Anton Webern. «Gli ascoltatori ogni volta che cercavano di prevedere la nota successiva sbagliavano. Il risultato è una preponderante sensazione di smarrimento: da qui la mancanza di piacere nell’ascolto».
Mattia Bernardo Bagnoli
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MI PIACE SCHONBERG, SONO PAZZO? -
Devo avere un cervello ben bizzarro, se - nonostante i pareri così autorevoli di alcuni neuroscienziati - mi sono emozionato ascoltando i Pezzi per pianoforte di Arnold Schönberg suonati da Maurizio Pollini. E anche lui, Pollini, sarà bene provveda presto a una visita, considerata la perseverante passione con cui studia quella musica, e la suona davanti a platee molto numerose e plaudenti.
Giacomo Leopardi, nel suo «Zibaldone», lo ha scritto con chiarezza: non esiste una musica valida dovunque e per tutte le epoche, ma tanti diversi modi espressivi, figli del sistema sociale e culturale che li ha generati e diffusi. La musica che entusiasmava Platone, oggi non riusciremmo a sopportarla per più di qualche minuto. Né lui capirebbe Beethoven. I canti degli aborigeni australiani, così densi di significati e di simboli, sfuggono alla nostra sensibilità di occidentali, a meno che non ne conosciamo i codici.
Non è la prima volta che un presunto linguaggio universale della musica - quella che semplificando chiamiamo «musica classica», sviluppatasi soltanto in Europa tra Sette e Ottocento - viene usato in contrapposizione ad alcuni degli stili messi a punto dal Novecento, in particolare al metodo di scrittura dodecafonica, che usa tutti i dodici suoni della nostra scala musicale: le sette note e i cinque semitoni che dividono una nota dall’altra.
La musica tonale «classica» risponderebbe a un nostro «istinto», l’altra no: tutta cerebrale, non sarebbe in grado di parlare alla nostra emotività, e questo perché il cervello non è in grado di riconoscerne i modelli (patterns). Critica davvero singolare, perché se c’è una musica rigorosamente strutturata, perfino prevedibile nella sua organizzazione, è proprio quella dodecafonica. Che è nata in una precisa epoca storica - in Europa centrale all’inizio Novecento - e che nel frattempo è diventata storia. Questa polemica è dunque vecchia.
Come in tutte le arti, la scelta della «lingua» con cui ci si esprime non offre alcuna garanzia rispetto al risultato finale. Pensiamo alla musica «leggera»: ci sono i Beatles, ma anche Emanuele Filiberto. C’è Caravaggio e, molti gradini più in basso, i «caravaggeschi». C’è Schönberg e tanti suoi epigoni, anche mediocri.
Non esiste alcun linguaggio musicale innato, ma soltanto la nostra maggiore o minore familiarità con esso, la nostra disponibilità a comprenderlo. Quando Mozart volle forzare i codici del suo tempo - e lo fece più volte - si tirò addosso tremende critiche: «Il suo orecchio è sordo, la sua musica è troppo speziata, il suo palato è guasto». Oggi, giudichiamo capolavori quei suoi eccessi.
Sandro Cappelletto